Susanna, l’adultera, Giobbe …e papa Francesco


Lunedì scorso (7 aprile) ero nella cappella di Santa Marta, in Vaticano, in quella sorta di nuova Tenda del convegno della e per la nuova Chiesa, quella nata con l’elezione di papa Francesco il 13 marzo del 2013.
In questa nuovissima cappella, nel residence che ospita i cardinali riuniti in conclave e dove oggi risiede il nuovo papa, questi, ogni giorno, alle sette del mattino, scende a celebrare la sua messa davanti a una piccola rappresentanza di fedeli – preti, laici, religiosi e religiose – che ne hanno chiesto e prenotato il privilegio. Quasi un incontro con il nuovo Mosè, il quale, come l’antico, ogni mattina farà conoscere ciò che Dio ha da chiedere o da proporre a ciascuno di quelli che desiderano conoscere qual è la sua santa volontà su di loro.
Lunedì scorso la liturgia del giorno proponeva due letture. La prima veniva proposta in duplice forma, una lunga (integrale) e una breve (ridotta), ampiamente “alleggerita” delle sue parti più scabrose. Vi si tratta di due vecchi giudici del popolo che tentano di persuadere una donna (la celeberrima “casta Susanna”) a conceder loro le sue grazie in cambio del quieto vivere. In caso di rifiuto essi avrebbero dichiarato d’averla sorpresa in flagrante adulterio con un giovane amante. Cosa che in genere riusciva loro, agitando davanti alle loro vittime la minaccia d’un’accusa e d’una morte ignominiose oltre che crudeli. Questa volta però era andata loro male: la castissima donna, sposata e integerrima, fidando completamente nella giustizia e nella provvidenza divina, si era negata loro ed essi senza pensarci due volte, avevano dato seguito alle loro minacce accusandola d’ averla trovata nel suo giardino con un uomo che non era suo marito e, in quanto adultera, l’avevano denunciata chiedendone la condanna a morte per lapidazione. La sua fiducia in Dio fu premiata grazie all’intervento del giovane Daniele, il quale con un abile stratagemma riuscì a convincere di falsa testimonianza i due corrotti giudici, liberando così la donna dall’ ignominia e dalla morte (Dn 13).
Il Vangelo offriva una lettura perfettamente simmetrica, tratta dal Vangelo di Giovanni, che raccontava d’un’adultera, questa sì sorpresa in flagrante adulterio e dunque “a buon diritto”, stando alla legge, condannata alla immediata lapidazione (Gv 8,1-11). Tutti sanno come la cosa è andata a finire. L’urlo liberatorio e la gragnuola di pietre sul corpo della sventurata non ci furono, e mentre la donna a terra si copriva la testa con le braccia e Gesù continuava a scrivere sulla polvere, lo spazio circostante s’era andato svuotando e la calma era miracolosamente tornata.
A questo punto, come fa ogni mattina, Francesco ha incominciato quella breve catechesi che in lui prende il posto dei pronunciamenti e dei giudizi che Mosè distillava a vantaggio di quelli che a lui ricorrevano per conoscere la volontà del Signore sui punti controversi che lo riguardavano.
Il papa ha fatto notare che in effetti quella condanna alla lapidazione era del tutto giustificata. L’imponeva la legge di Mosè. Una volta tanto farisei e scribi erano perfettamente in regola con la Legge e con la loro coscienza. Da quando il Dio dell’Alleanza aveva elevato il matrimonio uomo-donna a immagine del rapporto fra Dio e il suo popolo, l’infedeltà della moglie verso il marito era da considerare tanto grave quanto l’infedeltà d’Israele al suo Dio. Punibile dunque con la morte. La stranezza dunque, nell’intera vicenda, non era la condanna a morte della donna, ma semmai l’inedita misericordia di Gesù verso la peccatrice.
La spiegazione di Francesco è perfettamente coerente con tutto il suo pensiero e la sua predicazione, secondo cui ciò era stato possibile perché Gesù, pur comprendendo lo scopo e l’intenzione pedagogica dell’antica Legge e della sua sanzione, ha voluto proporci un modello e un ideale ancora più alti di quelli propostici da Mosè: questo valore più grande e più eccellente è quello della misericordia che va a prevalere sull’aspetto vendicativo della legge umana.
Più volte Gesù ce lo aveva detto chiaramente: è per la durezza del vostro cuore e della vostra mente che Mosè vi ha permesso questo (per esempio di ripudiare la moglie), ma in principio non era così. Non era questo il progetto di Dio. Il Creatore, come spesso fa un artista, si prefigge un’idea che poi per strada sarà costretto a ridimensionare o a rinunciarvi del tutto Avendo a che fare con uomini ancora troppo primitivi, vendicativi, selvaggi, troppo inclini alla vendetta, per i quali il maschio era tutto e la femmina era solo una cosa del maschio, era inevitabile che a far le spese maggiori di quest’ordine violento fossero soprattutto le donne. La lapidazione delle adultere rientrava bene in questo quadro di pre-civiltà, affinché le femmine si guardassero bene dal farsi prendere da certe velleità.
In questa visione di violenza dominante, la misericordia è la grande novità, la grande rivoluzione del Vangelo.
Il dente per dente, già un conquista di civiltà in confronto ai principi di Lamech (Gn 4,23-24), esisteva già prima di Gesù: non valeva la pena che Gesù avesse a morire per affermare una cosa che già per tutti era chiara.
È a questo punto che mi viene di aggiungere qualche considerazione tratta da una mia rilettura del libro di Giobbe: avendo ormai solo poco più di mille battute a disposizione, mi atterrò all’essenziale, magari riservandomi di tornarci sopra.
Un solo aspetto di quel terribile, magnifico, insopportabile libro, uno dei grandi capolavori della letteratura mondiale di tutte le epoche.
Ma quanto è disgraziato (nel senso di sfortunato) questo povero nostro Dio al quale tutti possono mettere in bocca tutto e il contrario di tutto; a cui ognuno di noi può far dire ciò che a noi più piace e più ci gusta senza mai porci neppure il pensiero, lo scrupolo, la delicatezza di domandarci se davvero stiamo riproducendo il suo pensiero o semplicemente un nostro delirio, un sogno, un incubo, una nostra frustrazione o un nostro parossismo di follia o di profezia.
O, detto altrimenti, di quanta pazienza deve essere capace un Dio onnipotente per poter sopportare la nostra infinita (questa sì veramente infinita) insipienza senza scagliarci sulla testa un qualche fulmine che ci ammazzi secchi, stecchiti, solo per la nostra sciagurata pretesa di farci suoi portavoce? E si noti bene: non sto parlando qui solo di quegli insipienti predicatorelli da strapazzo alla Bildad, alla Elifaz o alla Zofar che si incontrano nel libro di Giobbe, ma anche dei paludatissimi oratori e predicatori e teologi nostrani di cui se solo ci volessimo prendere la pena di andare a scavare nei loro detti e nelle loro sentenze, sai di quante di queste dovremmo dire ma “come abbiamo potuto pensare e mettere in bocca al buon Dio tutte le sciocchezze e gli orrori che in duemila anni abbiamo saputo concepire e insegnare dalle nostre cattedre, dai pulpiti e dai testi che abbiamo avuto il coraggio di scrivere e peggio ancora di pubblicare?”. E allora non puoi fare a meno di ringraziare Dio per questo forte richiamo alla misericordia, detto a bassa voce da un papa che a Santa Marta pare una tutt’altra persona rispetto a quel vulcano che ogni mercoledì esplode in Piazza San Pietro e ti contagia con la sua vitalità senza freni. E ti ricordi che già qualcuno l’aveva detto: «che Dio vuole misericordia e non sacrificio» (Mt 9,13).