Se muore il cristianesimo? Viva il cristianesimo


Verso la metà degli anni Ottanta mi trovavo in Messico, a Uxmal, celebre città azteca nella penisola dello Yucatan, celebre per una delle piramidi più sensazionali di quel mondo straordinario che fu il Messico precolombiano.
Quella sera si teneva, sul piazzale antistante la piramide, uno spettacolo di suoni e luci che non ho più dimenticato: la storia ripercorreva le tappe della conquista spagnola del Messico, le lotte, le guerre, le stragi, la vittoria dei conquistatori, il rapido declino della civiltà e della religione azteca. Tutti i riti, i sacrifici, le invocazioni dei sacerdoti contro la minaccia degli uomini venuti dal mare. Troppo poco contro lo strapotere dei fucili e dei cannoni degli invasori.
Struggente l’ultima scena del dramma. Celebrato l’ultimo rito, immolato l’ultimo sacrificio, i sacerdoti e tutto il loro seguito di inservienti, cerimonieri, cantori e dell’intero popolo presente lasciano l’ormai inutile luogo di culto e si avviano verso la foresta, dove scompariranno, uno dopo l’altro, per sempre. Andandosene ripetevano quasi fosse una nenia una sola parola composta: vamosnos vamosnos vamosnos… Andiamo andiamo andiamo… Poi il buio e il silenzio regnarono sovrani.
Era intorno al 1985. La Chiesa cattolica aveva già conosciuto il tracollo degli anni Settanta, proprio a ridosso del Concilio. Paradossale: tutti ne aspettavano la rinascita, e invece ne suonavano le campane a morto. Paolo Vi se ne spaventò. Giovanni Paolo II reagì da par suo. Il Concilio per un attimo aveva riempito le chiese, che invece erano tornate a svuotarsi. In compenso il papa polacco riempiva le piazze. Negli anni della fugace rinascita la Chiesa aveva investito molto sulle previsioni, ma i nuovissimi seminari rimasti vuoti venivano chiusi o soppressi e i loro edifici affittati; conventi e i monasteri si spopolavano a per le fughe e per le morti di chi ci viveva; in mancanza di giovani l’età media invecchiava in maniera impressionante; chiese nuove che si rivelavano spesso sovradimensionate rispetto ai reali bisogni del momento, ma avevano il pregio di dimostrare ottimismo per il futuro: non ci ha detto forse il Maestro che le forze dell’inferno mai prevarranno contro la sua Chiesa? E guai a noi se dovessimo dubitarne anche solo per un attimo. L’ottimismo è nel DNA della Chiesa. Ed ecco che mercoledì scorso, su laRepubblica, appare un articolo di Guido Ceronetti che mi è riuscito a mettermi addosso i brividi, richiamandomi diritto alla mente lo spettacolo notturno di Uxmal. Rivedevo quella lunga processione di uomini mezzinudi, la testa nascosta sotto piume o cappucci di lutto, la loro voce non più che un gemito lamentoso: vamosnos vamosnos vamosnos…
L’ho letto e riletto, con profondo rispetto. E mi son detto: non sarebbe la prima volta che una religione muore: si pensi quanti credenze e miti delle trascorse civiltà sono poi definitivamente scomparsi soltanto da quando l’uomo ha appreso a lasciarne traccia o segno scritto o dipinto o scolpito sulle rocce o sui muri. E ognuna di queste religioni celebrava il suo culto come poteva o sapeva: forme di culto gentili e grossolane, repellenti e sublimi, ingenue e feroci, ricche di spiritualità e carnali fino all’oscenità, angeliche e diaboliche, generose di promesse divini e avide di incassi in moneta, masochistiche ed edonistiche, specchietti per le allodole e severi colpi di frusta…
Ma il cristianesimo vero no! (Attenti bene: ho scritto cri-stia-ne-si-mo!). Esso non è uguale a nessun altra religione. Anche se i cristiani sono riusciti nella contraddittoria impresa di moltiplicare i culti e le confessioni in migliaia di versioni, il cristianesimo di Gesù (non quello degli uomini) rimane il portatore dell’unica fede che, se presa sul serio, potrebbe garantire agli uomini un mondo dove regni la pace, dove la giustizia imperi sovrana, dove i diritti dell’ultimo sono gli stessi di quelli del primo, dove l’uomo e la donna non avrebbero motivo di farsi la guerra perché tutt’e due fatti della stessa carne e dello stesso sangue, dove il perdono avrebbe la meglio sulla giustizia vendicativa e molto altro ancora.
Non a Caso di fronte alla prospettiva della morte del cristianesimo Ceronetti parla di “vuoto non colmabile”, di “amputazione enorme”, di un “vuoto” che è come quello d’un “buco nero” che nulla mai potrà riempire. Sicché lui, che pure dice “di non essere cambiato”, né di essersi “riconvertito ai suoi lontani anni di devozioni” sente di dover dire che “gli duole, il cristianesimo che muore”. E tuttavia non può fare a meno di ammetterlo: “adesso la cosa è talmente evidente dovunque, e così tanti (sono) i segni di morte, da poterla risentire come una personale ferita”.
Ma ora lo smarrito Ceronetti si chiede come mai fu possibile un tale tracollo, la responsabilità egli sembra attribuirla (senza dirlo esplicitamente) alla Chiesa stessa. Però attenti: egli non l’attribuisce ai suoi difetti, ai suoi peccati, allo IOR, alla pedofilia ecc. ecc., ma a quella che lui deve aver letto come una forma di pusillanimità, forse un vero terrore della Chiesa di non saper più far presa sulle coscienze, vuoi per la sua eccessiva severità sul piano etico e morale, vuoi per il fasto delle sue manifestazioni sul piano dell’apparire; quando cioè ha incominciato a rinunciare alla sua “mostruosità” (monstrum in latino è tutto ciò che desta meraviglia e merita ammirazione). In questo senso monstrum poteva essere sia la severità originaria della sua quaresima, sia lo splendore dei suoi riti (la sublime bellezza del canto gregoriano, l’impenetrabilità fascinosa della lingua latina), sia la ricchezza scandalosa dei suoi paramenti liturgici, sia il bizantinismo stucchevole della sedia gestatoria.
Questa sua idea (sarebbe interessante sapere da quanto tempo la coltiva) egli la mutua da un aforisma di Emil Cioran (filosofo rumano, morto nel 1995): “il cristianesimo è morto quando ha cessato di essere mostruoso”. Il senso, se interpreto bene, dev’essere questo: quando la Chiesa ha avuto paura di sé stessa e della sua stessa sublimità e ha incominciato ad annacquare il suo vino inebriante (a umanizzare troppo il suo divino messaggio), è allora che ha incominciato a morire.
Che dire? Per uno come me che venivo dal covo dell’anticoncilio (sono un frutto mal riuscito del Seminario Romano e dell’ Università del Laterano), ed è rinato nel e dal Concilio (ebbi poi la grazia di partecipare dall’interno a due sessioni del Concilio), è pressoché impossibile seguirlo su questa strada. Ma riconosco anch’io la verità del detto toscano: ogni muta una caduta, nel senso che se si cambia pelle o penne o pelo, per ogni nuovo acquisto, c’è qualcosa che lì per lì si perde. È questa fede che mi permette di poter sperare ancora nel futuro del cristianesimo: sarà solo questione di tempo e di fede.
Che direi allora a Ceronetti se potessi dialogare con lui? Gli direi che anch’io mi sono sentito più volte aggredito dallo stesso timore e dalla stessa angoscia. Questo fu per tutta l’era di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ora però non più.
Ora non più, da quando papa Francesco ci ha indicato l’uscita di sicurezza dall’ideologia cristiana, per riportarci all’aria pura, libera e liberante del Vangelo: troppo grande è il messaggio cristiano, perché l’uomo, per quanto stolto, possa rinunciarci per sempre. L’età che stiamo attraversando è come l’età della pubertà. Si crede di capire tutto e non si sa ancora niente. Oggi l’uomo crede d’avere in mano la pietra filosofare. Ci ha già provato in Dr Faust.
A me può bastare.

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