Il pellegrino della speranza fra un muro e l’altro


Ci si aspettava qualche gesto forte da parte di papa Francesco nella terra di Gesù, e l’attesa del mondo non è andata delusa. Con la semplicità di chi è abituato a convivere con lo straordinario, naturalmente. E cosa al mondo è più straordinario che essere papa? Se solo si pensa che, fra gli ormai diversi miliardi di uomini che hanno calcato la terra nelle diverse decine di migliaia di anni dall’apparizione del primo Homo sapiens sapiens, solo 266 sono stati i papi legittimamente eletti e regnanti, si capirà che per ogni uomo che nasce le probabilità di diventarlo sono assai prossime allo zero assoluto: uno zero virgola seguìto da molti molti zeri prima di trovare l’unità che cercavi.
Ebbene, eccolo che vola verso Amman, per incominciare il suo viaggio “nelle parti degli infedeli” essendo chiaro a tutti che il papa non ci andrà solo perché spinto da devozione personale, ma piuttosto perché spinto da un vivo desiderio di intavolare un dialogo e stabilire un rapporto di sincera comprensione e di fattiva collaborazione in favore della pace e delle buone relazioni fra le tre grandi famiglie religiose nate dal comune ceppo del patriarca Abramo.

Il primo eloquentissimo segno è già nel gruppo che lo ha accompagnato come delegazione ufficiale: per la prima volta ne hanno fatto parte un rabbino, Abraham Skorka, e un imam, Omar Abboud, ambedue argentini come il papa. Rimarrà nella storia la foto, che ha fatto il giro del mondo, dei tre grandi amici che si stringono in un comune abbraccio gioioso e commosso come tre vecchi compagni di scuola che si ritrovano dopo anni di separazione: quell’abbraccio davanti al “muro occidentale” di Gerusalemme, meglio conosciuto nel mondo come Muro del pianto è un invito ad abbattere tutti i muri di divisione o almeno come farne altrettanti punti di incontro, di riconciliazione e di festa. Non è di muri, ma semmai di ponti che l’umanità avrebbe urgente bisogno. Ponti che permettano ai fratelli di incontrare i fratelli, ai popoli di incontrare popoli, alle religioni di incontrare le altre religioni. Lo avevamo sperato un po’ tutti quando fu la caduta del Muro di Berlino già nel 1989, e invece poi eccoci di nuovo daccapo con quel muro che divide come uno schiaffo o uno sputo in faccia sia a Gerusalemme e alla vicina Betlemme, dieci minuti di macchina, un’ora fermi al check-point, a domandarti a che serve.
Un secondo segno di grande impatto nel viaggio di papa Francesco, è stata la sosta ai piedi del nuovissimo muro che preclude Betlemme agli ebrei e Gerusalemme ai palestinesi, a far sì che le due razze, le due religioni non abbiano a comunicare, a incontrarsi, a contaminarsi, a provocarsi: muri di difesa e di esclusione, di superiorità e di disprezzo, a prevenire minacce pericoli e contaminazioni.
Quelle mani del papa a toccare quei blocchi di freddo cemento, come le mani di una madre sulla pietra tombale del figlio ucciso o sulla bara di un figlio caduto per mano di un killer senza nome e senza volto: caduto per mano di chi spara nel mucchio: “chi muore muore”, purché sia uno in meno dall’altra parte.
M’è sembrato, guardando quelle mani, di leggervi un’infinita pietà e una forte volontà di voler fare di tutto perché mai più sia guerra, mai più terrorismo, mai più la difesa che aggredisce e la paura che si difende infondendo paura, che esorcizza la morte esportando morte. A quel check-point sono passato anch’io, senza poter scendere dall’autobus (sono mica un papa io!), senza potervi depositare un fiore, né poterlo toccare.
E m’è tornato in mente, in quel momento, con quanta gioia potei io staccare con un colpo di mazza il mio pezzo di muro di Berlino, un anno esatto dopo la sua caduta: ora quel pezzo di calcestruzzo sostiene un Crocifisso da me ricavato con antichi ferri di contadino a ricordo di altri calvari e di altri crocifissi: è il mio Cristo sopra Berlino che anche in questo momento mi sta dinanzi agli occhi mentre scrivo per voi che mi leggerete domani. Mi chiedo se non possa essere nato proprio lì, sotto quel muro assurdo e senza anima, l’idea dell’invito ai due Capi di Stato che lo hanno ospitato, Abu Mazen e Shimon Perez, a recarsi a Roma, ospiti in casa sua per un incontro di preghiera. Splendida audacia, premiata dalla risposta positiva di tutti e due. Il più bel gesto nella terra di Gesù, il più originale di quell’uomo di genio che è Francesco.
Un altro segno è legato a un muro: questa volta al Muro del pianto. Un rito che colpì il mondo a suo tempo e legato alla memoria di Giovanni Paolo II: il gesto del biglietto infilato in una fessura fra le grandi pietre di quel muro solenne. Il gesto non fu farina del sacco di quel papa, ma del card. Jean-Marie Lustiger, oggi arcivescovo emerito di Parigi, nato ebreo ma educato al cattolicesimo da una famiglia cristiana di Orléans, dove aveva trovato rifugio dopo che i suoi genitori erano stati deportati nei campi di concentramento nazisti (la madre morì ad Auschwitz). Mentre in Vaticano ci si preparava a quel viaggio e ci si chiedeva che segno avrebbe potuto compiere il papa perché quel viaggio rimanesse impresso nella memoria di ogni ebreo e di ogni uomo di buona volontà, il cardinale propose: (a senso) “Faccia una cosa che ogni ebreo fa quando va a pregare al Muro del pianto. Ogni ebreo La sentirà come un fratello”. Alla richiesta di maggiori chiarimenti, il cardinale rispose: “Esprima una preghiera, un augurio e la scriva su un foglietto di carta e lo infili in uno degli spazi fra pietra e pietra, perché quella preghiera continui a interpellare nel silenzio la misericordia e la potenza di Dio”. L’idea piacque e fu adottata; e così fu fatto. Oggi quell’immagine è ormai patrimonio di ogni uomo autenticamente religioso, ma quel gesto non impressiona e non commuove più: ormai è un must, un gesto quasi obbligato. Un rito liturgico, si direbbe. Sia papa Ratzinger sia papa Bergoglio lo hanno ripetuto. Probabilmente rimarrà anche in futuro, perché un rito è più difficile sopprimerlo che crearlo: parola di liturgista.
L’ultimo punto su cui fermerò la mia attenzione, è una parola di papa Francesco nella rituale conferenza stampa ai giornalisti nel viaggio di ritorno. Alla domanda se è ipotizzabile la fine del celibato obbligatorio, il papa ha risposto: “Il celibato sacerdotale non è un dogma di fede – ha detto Papa Francesco -, ma una regola di vita che io apprezzo tanto: un dono per la Chiesa”.
Assolutamente corretto; ma ha aggiunto (cito a memoria) “il dialogo resta aperto”. Anche questo è perfetto. L’importante è che il dibattito resti aperto. Non ci spenderò altre parole avendone già scritto domenica scorsa.
Un ultima sottolineatura a questo viaggio, sempre riferita all’intervista “aerea” di Francesco: La domanda si riferiva alla possibilità che con le dimissioni di papa Ratzinger le dimissioni di un papa possano diventare un fatto corrente nella Chiesa. “Le dimissioni di Benedetto XVI sono la porta dei Papi emeriti: cosa succederà non possiamo dirlo, Dio lo sa, ma la porta è aperta”. Una possibilità che non esclude neppure per sé stesso.
Io mi ritrovo tutto in queste parole, che vanno esattamente nel senso di ciò che scrivevo quando scrivevo sulle penose condizioni finali di Giovanni Paolo II. Qualcuno ne fu scandalizzato. Sono contento d’essere vissuto abbastanza per avere la conferma che non ero io che stavo fuori del tempo e della Chiesa.