I mille volti della bontà di Dio


“Famiglia, che dici tu di te stessa?”. Questa dev’essere stata, nell’intenzione di papa Francesco, la domanda da cui doveva prendere il via tutto il lavoro del Sinodo che si sta svolgendo in Vaticano.
A questa domanda doveva seguire una risposta, e a darla doveva essere la Chiesa: “E tu, Chiesa, che dici tu che sia la famiglia, la “piccola Chiesa del Vaticano II?
Posta così la questione, appare subito evidente che la risposta potrà venire solo da un confronto schietto e aperto tra la famiglia (fra le varie idee di famiglia) e la Chiesa. È questo confronto che il papa ha sollecitato fin dal discorso d’apertura del sinodo, con un forte appello alla franchezza e con quel rammarico che ha detto d’aver provato nel sentirsi dire che alcuni padri sinodali avrebbero potuto astenersi dal parlare con totale libertà davanti al papa. Così egli ha esortato tutti a parlare senza niente nascondere, senza niente tacere del proprio animo e del proprio pensiero sui temi in discussione. Per dare forza al pensiero ha usato il termine greco parresia (da pan tutto, e dalla radice rhe dire) per dir loro: io mi aspetto che mi diciate TUTTO!
Proprio per questo egli aveva promosso il grande sondaggio dello scorso anno, per sapere tutto ciò che era possibile sapere sulla Chiesa e sul suo modo di vedere e di porsi davanti ai problemi del mondo d’oggi e della famiglia in particolare. Da quel sondaggio era emerso che ormai parlare di famiglia è troppo riduttivo e improprio. Al punto in cui siamo, e per quanto possiamo sapere noi del genere umano, non si può più parlare di famiglia, ma solo e unicamente di famiglie, essendo ormai la relatività e varietà dei significati del termine giunte a tal punto che in nessun modo si può più parlare di un solo tipo di famiglia, ma di molti tipi, di molti modi di intendere e di vivere la famiglia.
Solo per fare qualche esempio: la Chiesa parla di un diritto “naturale” della famiglia che sempre meno appare condiviso nella cultura occidentale in generale e perfino in quella cristiana. Monogamica? In molte parti del mondo esiste la poligamia come modello naturale: nella Bibbia si parla addirittura di “settecento principesse per mogli e di trecento concubine” per Salomone il Grande (1Re, 11,3). Indissolubile? Da sempre, mondo biblico compreso, il ripudio ieri (oggi parliamo di divorzio), appare perfettamente legittimo e accettato dai testi sacri. Patriarcale? Non sono mai mancate nel mondo culture, magari minoritarie, a prevalenza matriarcale. Divorziati risposati? Niente di più normale: a nessuno può essere vietata una seconda possibilità.
Ma oggi, del tutto in linea con una cultura dei diritti che fa di ogni capriccio un diritto inalienabile, si parla sempre più spesso di famiglie omosessuali, di coppie di fatto, di convivenza in attesa di ratifica o scioglimento a prova conclusa.
Sarebbe facile, davanti a una tale babele, accontentarsi di un modus vivendi che consenta a tutti di vivere secondo le proprie convinzioni. Il difficile comincia quando chi adotta una di queste diverse concezioni della famiglia, viene poi a chiedere alla Chiesa la benedizione e la ratifica sacramentale della propria scelta. È proprio davanti a questa richiesta che sorgono per la Chiesa i problemi che minacciano di lacerare l’unanimità che finora le era stato spesso possibile registrare.
È proprio ciò a cui si assiste in questi giorni al sinodo: accanto a una base dell’episcopato probabilmente compatto sulle posizioni di Francesco, tutto aperto alla comprensione e alla misericordia, appare assai determinata e agguerrita una minoranza, anche ad altissimo livello (cardinalizio) assai meno disponibile a transigere su quelli che il card. Ruini aveva chiamato i principi non negoziabili (formula infelice, oggi fortunatamente scomparsa) del matrimonio.
Assistiamo così alla contrapposizione di veri pezzi da 90 nel sacro collegio proprio sul tema della “comprensione” verso chi ha osato infrangere l’indissolubilità del matrimonio: comprensione e misericordia sì, ma guai a intaccare il dogma! E guai a intaccare quello dell’incompatibilità fra la situazione di peccato in cui oggettivamente vivono i divorziati risposati e la santità del sacramento eucaristico, a meno che non vivano castamente la loro unione! E sì, forse?, alla comprensione per le unioni omosessuali, ma solo se la loro convivenza sarà casta; lo stesso si dica per le coppie di fatto che potrebbero ben convivere sotto lo stesso tetto, ma ugualmente e sempre in modo casto. E che dire di quelle coppie che usano con disinvoltura i contracettivi per fare spensieratamente sesso senza il rischio d’incorrere in gravidanze indesiderate?
A chi conosce un po’ di storia di teologia e della liturgia dei sacramenti, sa bene che nella Chiesa c’è sempre stato il confronto, anche vivace, fra due anime, quella rigorista e quella pastorale, talvolta serenamente tal altra assai aspra e con reciproche condanne. Nessuno si sorprenderà dunque se le due anime esistono e si contrappongano ancora oggi. Ma il risultato è sicuro: alla fine prevarrà, come sempre, l’anima pastorale. Quanto a quella rigorista, è certo che non scomparirà: prima poi tornerà a farsi viva.
Quanto al nostro caso, è evidente che a prevalere sarà quella più vicina alla grande anima di pastore di Francesco.
Del resto ciò sta già avvenendo, dal momento che è già in atto, sotterraneo, un movimento di ritorno all’antico, a quando cioè i cristiani si accostavano alla comunione liberamente e lecitamente ogni volta che volevano, a meno che non fossero stati raggiunti da una dichiarata scomunica, cioè da una sentenza del vescovo che li privava d’autorità della comunione eucaristica per qualche gravissima colpa di cui il vescovo stesso fosse venuto in qualche modo al corrente. Fatto parecchio raro, perché in genere erano gli stessi vescovi a sconsigliare i peccatori a sottoporsi in troppo giovane età alla penitenza canonica, poiché un’eventuale riconciliazione non si sarebbe più potuta ripetere, mai!, neppure in punto di morte. Meglio allora aspettare e rimandare il più possibile la riconciliazione, meglio, addirittura, se in punto di morte. Intanto, senza la scomunica del vescovo, essi avrebbero potuto accostarsi alla comunione come tutti gli altri. Per ottenere il perdono dei peccati bastava molto meno: preghiere, elemosine, digiuni, mortificazioni, atti di carità ecc.).
Ecco allora emergere dal nostro passato ciò che veramente servirebbe oggi: che per ottenere il perdono, pur vivendo ancora in una condizione di peccato, basta molto meno e molto più d’una assoluzione papale: basta un vero dolore per lo sbaglio commesso e una decisa forte volontà di rimediare all’errore sforzandosi di trar fuori dalla nuova situazione tutte le possibilità d’amore e di grazia che essa può offrirci. Basterebbe dir loro: Sì, fratelli miei, avete sbagliato, perché davvero lo sbaglio c’è stato. Ma nessuno deve mai disperare del perdono di Dio e della Chiesa. Vi restano molti modi per ottenere misericordia da Dio e dalla Chiesa: una vita cristiana per altri versi irreprensibile, la carità, l’elemosina, la mortificazione, il digiuno, l’assistenza a un vicino povero, a un malato che non può bastare a sé stesso.. Fatto questo affidatevi alla misericordia di Dio. Lui non ve la negherà e non ve la negherà neppure la Chiesa. Quanto ai cardinali che dicono che la Chiesa non può cambiar dottrina, si dica loro di studiare un po’ meno la dogmatica e un po’ più la storia dei sacramenti. Serve, credetemi. Del resto lo diceva già Prospero d’Aquitania (sec. V): Come si prega, così si creda! Lui sì che s’intendeva!

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