Dr. Faust: fra madonne e meretrici


Può aver nulla a che fare la festa dell’Assunzione con il Faust di Goethe? Probabilmente no, ma non per me. Perché non so neppure come, ma la rilettura del celebre Chorus mysticus che chiude quel grande capolavoro, mi ha richiamato in mente proprio la festa che abbiamo appena celebrato. Quelle parole, tanto più se musicate da Gustav Mahler (Sinfonia n.8)non possono lasciarci indifferenti. Queste le parole di quella brevissima composizione, in una mia traduzione non in tutto identica ad altre più rinomate.

«Ogni cosa che passa
è solo una parvenza;
ogni cosa provvisoria
qui trova stabilità;
ogni cosa indescrivibile
qui trova espressione;
l’Eterno-Femineo
ci (at)tira verso l’alto».

Sicuramente in molti, fra chi mi legge, avranno subito pensato alla più comune e fin troppo abusata formula: eterno femminino. Bene, il tedesco usa due aggettivi sostantivati (ewig sta per eterno e Weibliche per femminile nell’uso corrente; in italiano è invece invalso femminino usato solo nell’eloquio alto, poetico, letterario che sia; accanto a questi due, ma in senso molto più banale l’aggettivo donnesco, familiare o da bar). Io ne ho usato un altro ancora femineo, un po’ latino un po’ italiano, certamente elegante. Con un avviso ai lettori: chi non ama queste sottigliezze, passi pure al successivo paragrafo.
È un fatto: la formula goethiana ha in sé dell’epico. Ciò è provato dal fatto che sia ewig (eterno) sia weiblich (femminile) sono per sé due aggettivi che qui diventano un unico sostantivo neutro (ne fa fede l’articolo neutro das), composto da due aggettivi sostantivati Ewig e Weibliche come è dimostrato dalla doppia iniziale maiuscola (in tedesco ogni sostantivo inizia con la maiuscola, caratteristica propria di quella lingua). Orbene qui Goethe violenta ogni norma grammaticale per ottenere il suo scopo: quello di creare un’entità nuova e il suo concetto inedito: quello che ormai in italiano è noto (e assai spesso abusato) come l’eterno-femminino che a mio avviso potrebbe essere meglio reso con un altro neologismo femineo: un nuovo termine per un nuovo concetto, al quale però corrisponde una realtà che è invece da sempre e a cui solo Goethe ha saputo dare un nome: un’entità di natura, una specie a sé stante che non esiste se non nel concetto e dunque nella mente, ma che puoi incontrarlo e trovarlo dovunque o nella sua commovente, sublime purezza, o nel suo più volgare farsi carne in Elena di Troia. Goethe li ha ben presenti entrambi: il primo nella dolce e infelice Margherita, il secondo nella cinica e viziosa Elena di Troia. Da che parte sia schierato il Poeta, lo dirà la vicenda stessa del goffo e tragico Doktor Faust, fin dalle primissime parole con cui si apre il dramma:

«Filosofia ho studiato,
medicina e diritto, e, purtroppo, la teologia,
da capo a fondo, con ogni sforzo.
Adesso eccomi qui, povero pazzo,
e sono intelligente quanto prima.
Mi chiamano dottore, professore…
La so più lunga, certo, di tutti i presuntuosi,
dottori, professori, preti e scribacchini;
né scrupoli né dubbi mi tormentano,
non temo né l’Inferno né il demonio.
In cambio sono privato di ogni gioia…».

A questo punto della sua vita, Faust è un povero vecchio, infelice, frustrato, che pensa a quanto sia stato sciocco privarsi di ogni gioia che la vita avrebbe potuto offrigli, primi fra tutti l’amore e la carne di una donna o, forse delle donne.
Consumato dal rimpianto, il vecchio alchimista gioca il tutto per tutto, e al demonio, che gli si presenta in forma di cane ringhioso, chiede aiuto per ricominciare tornando giovane. Il demonio, il suo nome è Mefistofele, si mette a sua piena disposizione, pronto ad accontentarlo in tutto in cambio della sua anima. Lo sventurato rispose, avrebbe detto Manzoni.
Mefistofele fa incontrare Faust con Margherita, una giovane dolce creatura povera e innocente. Faust la seduce la disonora e infine l’abbandona. La giovane non sopravvive al disonore, ma si salverà per la profonda purezza del suo cuore.
Faust si volge ora al mondo dei potenti e s’invaghisce di Elena di Troia, da cui avrà anche un figlio, che morirà giovinetto. Ma neppure con lei durerà. Mefistofele lo rende cieco, sperando di esasperarlo, ma proprio nella cecità Faust troverà la via al suo riscatto; diventando vecchio avrà un desiderio: rendere un giardino un luogo arido e sabbioso, dove gli uomini possano vivere sereni. Udendo queste parole Mefistofele crede che Faust voglia farla finita con la vita, e lo fa morire, pronto a trascinare la sua anima all’inferno, ma ciò gli viene impedito: chi con lo studio ha cercato di migliorare il mondo non merita l’inferno. Su questa consolante certezza scendono le parole del Chorus mysticus, che attribuiscono all’amore eterno ribattezzato come Eterno Femineo la salvezza anche del peccatore: «L’Eterno Femineo ci trae verso l’alto».
Del resto l’Assunzione è la festa che celebra la donna come cooperatrice privilegiata di Cristo nell’opera della redenzione. La donna che ci viene data come madre di ogni di ogni fallito, avvocata di ogni peccatore. È la Donna dell’ Apocalisse che mette in salvo il figlio minacciato dal drago. La donna di cui Dante scrisse:

«Donna se’ tanto grande e tanto vali
che qual vuol grazia e a te non ricorre
sua disïanza vuol volar senz’ali”? (Paradiso XXXIII)

È la donna che preghiamo con il rosario, quel rosario a cui Michelangelo nella Sistina fa aggrappare un uomo e una donna che un angelo tenta di strappare all’inferno tirandoli a fatica verso l’alto, proprio come Goethe dice dell’Eterno Femineo, quando scrive che esso zieht uns hinan ci tira verso l’alto. E del resto, l’intenzione profonda di Goethe risulta ben chiara dal suo prologo che ricalca tanto da vicino quello del libro di Giobbe.
P.S. Ultima nota: perché preferisco la dizione femineo o, in alternativa, femminile al più comune e vulgato femminino? È presto detto, anche se con molto rammarico: perché nel linguaggio corrente l’ espressione corrente dice l’esatto contrario di quello che voleva dirci Goethe.
Egli ci voleva dire che c’è una bontà eterna come Dio che s’incarna nel modello della Donna madre e amante, e lo chiama Eterno Femminile: esso è buono e ci “tira verso l’alto” (ziehen in tedesco sta letteralmente per tirare verso chi tira). Questo femminile nel Faust è impersonato da Margherita, innamorata e vittima dell’ ottusità e dall’egoismo del maschio. Questo Eterno Femineo sa riscattare anche i peccati.
Poi c’è un femminino perverso: alla Marlene Dietrich dell’Angelo azzurro, alla Mata Hari, alla Cleopatra: donne che sanno usare le loro arti per rovinare gli uomini a loro proprio vantaggio. Per questo non esitano a fare collezione di scalpi maschili. La sfida è lanciata ed è per sempre: ricordate la bellissima puledra brada di nome Carmencita e la sua sfida al maschio? «Se tu non m’ami, ma io ti amo, sta attento a te!» (Carmen). Poi le parti potranno anche invertirsi: per un Angelo azzurro che distrugge il suo vecchio e ridicolo spasimante, c’è una Carmen che finisce sotto il pugnale del suo rifiutato don José. Per ogni donna che tu guardi e che ti osserva chiediti sempre chi si nasconde dietro quel volto d’angelo: la Donna vestita di sole del cap. 12 o la Grande Meretrice del cap. 17 dell’Apocalisse? Goethe, senza dubbio pensava piuttosto alla prima; gli adoratori dell’eterno femminino nostrano, credo che siano passati direttamente al cap. 17. Anche se vorrei tanto sbagliarmi.

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