Dio: a qualcuno piace misericordioso


Incomincio a scrivere queste note nel giorno della memoria liturgica di santa Rosa da Lima, la prima santa del continente americano, veneratissima in tutto il Nuovo Mondo, ma specialmente in America latina. Una Santa che ha bruciato in fretta il molto olio della sua lampada: con una vita di durissima penitenza, a soli 31 anni aveva già dato tutto. La sua morte fu un apoteosi: per giorni e giorni non si poté chiudere la sua bara, tanta era la folla che voleva vederla un’ultima volta: qualcosa che a noi contemporanei ricorda l’apoteosi del funerale di Giovanni Paolo II.
C’è qualcosa però, in tutto questo, che mi sgomenta: il rigore delle sue penitenze e le parole con cui cerca di inculcarle anche in noi. Questo articolo non vuol essere un prendere le mie distanze dal pensiero della grande mistica. È una richiesta di confronto, una domanda d’aiuto: sono io nel vero o sono in errore? E se così fosse, dov’è il mio errore? C’è qualcuno che può aiutarmi a capire? Ma per favore, con argomenti seri; al mio fegato trapiantato il fritto fa male, fosse pure aria fritta.
Ecco alcune frasi della giovanissima Santa.
«Ascolta, popolo; ascoltate, genti tutte. Da parte di Cristo e con parole della sua stessa bocca vi avverto che non si riceve grazia senza soffrire afflizioni. È necessario che dolori si aggiungano a dolori per conseguire l’intima partecipazione alla natura divina…».
«Oh, se i mortali conoscessero che gran cosa è la grazia…. quante ricchezze nasconde in sé… senza dubbio andrebbero essi stessi alla ricerca di fastidi e di pene; andrebbero questuando molestie, infermità e tormenti invece che fortune, e ciò per conseguire l’inestimabile tesoro della grazia».
Devo confessare la mia perplessità di fronte a parole come queste, perché sinceramente non riesco a capacitarmene. Sia ben chiaro: non sono parole nuove, perché sono fra le parole più classiche e più riproposte e condivise dai mistici cristiani.
Eppure non riesco a rimanere indifferente quando le leggo o le ascolto. E mi chiedo: da dove viene questo bisogno di soffrire? C’è qualcosa di più innaturale, più contro natura che il desiderare il male per noi stessi, invocarlo, cercarlo, procurarcelo, più ancora, farcelo da soli? E questo, diciamo, perché Dio possa colmarci delle sue consolazioni. Ma perché mai Dio dovrebbe trarre gioia dalla mia sofferenza, tanto da desiderare che io giunga a infliggermela da solo? Ecco, questo, per quanto io faccia, non riesco a capirlo. E sono tanti, credo, che la pensano come me.

Io capisco, anzi io mi chino in adorazione davanti all’atteggiamento del Figlio Verbo di Dio, che dice al Padre: “Vado io, manda me; andrò a predicare l’amore, la giustizia, la misericordia, la purezza, la pace, l’uguaglianza e tutte quelle virtù che sole possono rendere bella e serena la vita degli umani e dell’umana società. So cosa mi aspetta, ma per amore dei miei fratelli uomini, e per amor tuo, Padre, perché tu non abbia più a vederli fare tutte le soperchierie e le porcherie che son soliti fare. Niente fa soffrire un padre più del vedere i suoi figli scannarsi a vicenda.
Sì Padre, manda me; e pur sapendo che me la faranno pagare, che mi strapperanno la carne a brandelli, io andrò e parlerò loro, tentando di farli rinsavire (non che ci creda molto!). Del resto so bene che tu sarai con me, dovunque andrò, dovunque sarò, anche sulla croce: le mie piaghe saranno le tue, il mio sacrificio sarà il tuo sacrificio per la salvezza di quelli che insieme abbiamo creato, che insieme vogliamo salvare. Perché conoscano l’amore che è in noi, perché abbandonino i loro sentieri di violenza e di morte e ascoltino solo le nostre parole che parlano soltanto di pace e di vita”.
L’esperienza l’ha dimostrato: camminare su questi sentieri può costare anche molto: sono i sentieri di padre Damiano de Veuster, che si offrì per andare cappellano nell’isola lazzaretto dei lebbrosi, morendo lui stesso di lebbra; del francescano Massimiliano Kolbe che si fece fucilare al posto d’un suo compagno di prigionia, tanto lui non aveva nessuno che l’aspettava a casa; di madre Teresa che lasciò convento e scuola per piegarsi sul vomito degli intoccabili di Calcutta.
Sì, soffrire così lo capisco, ma flagellarmi per dare soddisfazione a te Padre Figlio e Spirito d’amore (che come potrai essere Spirito d’amore se ti piace tanto vedere il mio sangue?) per i peccati degli altri, beh, francamente, non lo capisco mica tanto! Perché poi ti dovrebbe dar gioia vedermi soffrire? Perché così saresti sicuro che ti amo? E dove mai? Gesù, quando chiese a Pietro se gli voleva bene, non gli chiese mica di flagellarsi a sangue: s’accontento che gli dicesse, magari per ben tre volte: tu lo sai che ti amo. Gli bastò.
Quanto a me: non sono amore tutte le contraddizioni, le amarezze, le ingratitudini, le emarginazioni che ho dovuto subire servendoti? Non è stata amore la piena accettazione delle tante volte che i chirurghi han dovuto mettere le mani sul mio corpo? Non te l’ho mai rinfacciato. “Andrà per sconto dei miei peccati” (da noi si dice così) e per il bene della Chiesa. «Se da Dio accettiamo il bene, perché non accetteremo anche il male?». Sono parole di Giobbe, il Giusto. Ma colare il mio sangue dalle punte di ferro di un cilicio, non credo che lo vedrai mai, mio Dio!
E poi quanti modi ci sono per amarti davvero? Guarda, Signore, quanta gente, ogni giorno nel mondo, si spende e si sacrifica nelle opere di soccorso in mare, in montagna, fra le rovine d’un terremoto o d’un’alluvione; quanta gente rischia ogni minuto la vita per soccorrere i feriti, per garantire un rifugio ai senza tetto, là dove la guerra civile dilania i cuori e i corpi degli uomini e fa crollare le case! Questo sì, è meraviglioso e al tempo stesso è diverso: questo lo capisco perché, in questi casi, amore per l’uomo e amore per Dio giocano nella stessa squadra. Ma troverei odioso che qualcuno mi dicesse: “se vuoi che tuo fratello sia salvo, fammi vedere il tuo sangue, fammelo leccare”. Io gli urlerei di no e gli direi che è un mostro.
Quando ero un giovane studente, i padri predicatori d’esercizi spirituali (tipi a volte un po’ pericolosi, devo dire) ci dicevano: “Le anime si pagano”, e volevano dire: mortificatevi, fate penitenza per loro, digiunate, privatevi di qualcosa; Dio alla fine ve li metterà in mano.
Ma perché, Signore, dovrei pagare del mio per aiutarti a salvare un tuo figlio? Non potresti salvarlo tu, gratis, da solo? Non sarebbe più bello? Perché devo strapparti la sua salvezza, quasi facessi un favore a me? Perché dovresti avere bisogno del dolore di un giusto per salvare un peccatore? Se è in tuo potere salvarlo, perché non lo salvi da solo, spontaneamente, gratuitamente?
O non sarà che questo è un altro vecchio errore teologico che ci portiamo dietro dai primi secoli della Chiesa, quando si credeva che solo il dolore fisico poteva ottenerci l’estinzione del peccato? Tot peccati? Tot anni di digiuno, o tu o qualcun altro per te. Chi paga paga, come al ristorante. Purché qualcuno paghi.
Intanto però s’è capito, tra gli uomini, che il perdono è un per-dono, non un per-pagamento avvenuto. Se no che per-dono sarebbe? Ma quest’idea strepitosa fatica ancora ad entrare.