Con Francesco verso una nuova chiesa


Ora che la finestra s’è riaperta, ora che, calato il sole dietro al Cupolone, quella terza stanza all’ultimo piano del palazzo apostolica tornarà tutte le sere a illuminarsi per chi all’interno ci vive e per quanti dalla piazza l’osservano (dicendosi fra sé: “là dietro, vedi?, c’è il papa che lavora. Per noi”), anche noi possiamo sederci, finalmente tranquilli, a interrogarci sul senso vero di tutto ciò che è accaduto, sul senso profondo di quello di cui siamo stati fortunati testimoni.
Testimoni per mediazione certo: per la mediazione dei prodigiosi media che la scienza degli uomini ha saputo metterci a disposizione per superare le barriere che le distanze, diversamente incolmabili, avrebbero opposto al nostro desiderio di “esserci”, per poter dire anche noi, un giorno, «io c’ero!».
Non lì, d’accordo, non in piazza san Pietro a spellarci le mani, a gridare con tutta la voce “viva il papa, viva Francesco”, ma davanti al nostro televisore sì!, c’eravamo a vedere quel volto raccolto, a far nostro quello sguardo esso stesso incredulo, lo sguardo di chi dice: “ma sarà proprio vero, ma sarò proprio io, non starò mica sognando, e com’è stato possibile che abbian pensato proprio a me… proprio a me…!”.
Ho ancora ben presenti davanti a me quegli occhi tranquilli che non volevano ancora trasmettere nulla, che volevano solo capire cosa stesse accadendo e come poteva mai essere che tutto quel putiferio di gente, di voci, di applausi, di lampi, di grida, di suoni, di sorrisi e di lacrime fosse potuto esplodere solo per lui.
Quelli che c’erano fisicamente, lo racconteranno per giorni, o settimane, o mesi e ancora fra molti anni di quando in quando lo racconteranno agli ammirati amici o ai nipoti, concludendo l’ancora commosso ricordo con l’immancabile: Sì, io c’ero; Oui, moi, j’etait là; Yes, I was there; Ya, ich war dabei; Seguro, yo estaba allí. E intanto che diranno queste o altre simili parole dal differente suono ma dello stesso senso, si gusteranno tutto il delizioso nettare del sapersi invidiato. E tu, fiero, che rincari la dose: «Guarda, sono cose che non si possono dire: bisogna esserci stati per capire cosa può voler dire essersi fatti fatto trovare pronto all’appuntamento con la Storia: con la grande Storia!».
Bene, io non c’ero, come non c’eravate voi, quanti mi state leggendo, pochi o molti che siate: eppure il miracolo c’è stato anche per noi, il miracolo d’un evento che si svolgeva lontano da noi, ma che ci raggiungeva, ci toccava, provocava, commoveva al punto che battevamo le mani anche noi, ridevamo come bambini anche noi, piangevamo di gioia anche noi, come fossimo lì… ovvìa, proprio proprio come fossimo lì forse no, ma insomma quasi.
Così abbiamo potuto stupirci anche noi nel vedere quell’uomo baciato da un destino che solo ad altri 265 uomini fra tutti i miliardi di nostri simili è stato concesso: ed è stato bello anche solo così. La sua composta emozione, la sua serena fiducia di sapersi prescelto da un Dio certamente esigente e tuttavia amico, che sai che ti tenderà la destra aspettandosi molto da te, ma che con la sinistra ti infilerà in tasca una somma ancora maggiore di quella che lui si aspetta da te, così che tu non abbia a perderci mai nello scambio: un amico insomma, non un tiranno, un’agenzia delle entrate che, se non paghi, ti stacca la fornitura del gas o peggio ancora dell’acqua.
Il suo volto ci diceva tutto questo: era il volto di chi sa che per lui le vacanze sono finite, che non avrà mai più tempo per sé, per i suoi hobby, perché il tuo tempo ormai sarà tutto degli altri, o meglio per gli altri, perché lui stesso sarà ormai tutto per gli altri, tutto degli altri; e per sé stesso giusto le briciole resteranno, e anche quelle saranno assai scarse!
Lo guardavi e vedevi un volto consapevole, ma non spaventato, pronto ad affrontare sfide che sapeva di poter vincere. Il suo era lo sguardo sicuro di chi sa d’avere le spalle coperte e che davanti all’avversario che gli sta di fronte sa bene come difendersi da lui. Non ha avuto fretta né di rompere il silenzio né di dare la benedizione finale: ha voluto goderselo tutto quel momento unico, inebriarsi di quel silenzio assoluto, totale, una vertigine a picco su quel mare di trecentomila silenzi nella baia di Piazza San Pietro, alla fine del fiordo di Via della Conciliazione: dove andava a placarsi una calda corrente di simpatia e di fede.
Ha avuto coraggio quell’uomo a immaginare che i trecentomila gli avrebbero obbedito tutti come un sol uomo. Era il domatore di tigri che sfida le sue belve in precario equilibrio sui loro trespoli, sicurissimo che non gli salteranno mai addosso per sbranarlo, perché sanno di potersi fidare di lui proprio come lui si fida di loro. Tale mi è sembrato quel silenzio impossibile assurdo bellissimo, sospeso fra la piazza e il balcone. Passati ormai due giorni da quei magici minuti, ricominciamo oggi a interrogarci con le domande più scomode, quelle che veramente contano, sul futuro prossimo e su quello solo un po’ più lontano.
Mi piacerebbe tanto, ad esempio, sapere cosa gli passa per la testa in questi giorni, quale programma andrà mai elaborando, come pensa di affrontare i contrasti che hanno schiantato la resistenza del suo predecessore, l’ex prefetto di ferro e poi papa di cera Benedetto XVI (nessuno prenda questa seconda definizione come un’offesa, piuttosto ci si legga un riconoscimento all’uomo mite, indebolito e indifeso, ma dall’estrema integrità morale e intellettuale, che ha preferito nuocere a sé stesso e al suo nome piuttosto che alla Chiesa, per la quale si considerava ormai inadeguato).
Mi piacerebbe sapere cosa crede, Francesco, di poter chiedere, di poter offrire a quanti oggi si affidano a lui con tanta simpatia e fiducia. Come vede la curia romana: come un’alleata affidabile o come una possibile concorrente sleale? E quegli uomini vestiti di porpora e abituati al comando vorrà piuttosto coccolarli o tenerli a bada e alla dovuta distanza? E fino a che punto coccolarli e fino a che punto usare la frusta e il pungolo invece delle carezze per tenerli meglio sotto controllo?
Ahi! Che sia, il mio, un passo falso? Come posso parlare di pungolo e di frusta per i santi uomini le cui talari e i cui ferraioli riempiono di devoti fruscii le solenni, ma anche un po’ tanto severe stanze del potere papale et eziandio curiale? Poi mi tranquillizzo pensando che fu proprio Benedetto XVI a rendere lecita più di qualche illazione.
E uscendo dai Sacri Palazzi Apostolici per entrare in quelli più modesti (ma sempre sacri) dei vescovi, che sarà dei poteri episcopali nei loro rapporti con Roma? Quale spazio sarà fatto al collegio episcopale? Mi ricordo che durante il Concilio corse voce che, mentre in Aula si parlava dei vescovi, di notte era dato d’udire gemiti e pianti sconsolati fra le silenti colonne del Bernini. La gendarmeria vaticana condusse accuratissime indagini. Fu acclarato che erano i vescovi della scuola teologica romana che non volevano proprio saperne di andare in collegio.
Oggi che tutti vi sono felicemente entrati, tutto dovrebbe essere calmo, silente. Macché: a riprova che non si è mai contenti, frignìi e lamenti di quando in quando risuonano ancora sotto il colonnato: sono tutti quelli che in collegio volevano andarci e che oggi si lamentano perché il collegio è sempre in vacanza.
Ci sarebbero ancora le case dei preti da visitare, ma in queste entreremo domani.

,