Santa Chiesa di Dio, mostraci d’esserci madre


Ho sempre obbedito al precetto della Chiesa di non concedere ai cristiani sposati con matrimonio religioso, divorziati e poi risposati, la comunione eucaristica. La stessa cosa ho fatto per i conviventi.
Non proprio sempre: quando posso faccio finta di non sapere che è un “irregolare”. Altre volte ricorro a uno stratagemma: non guardo mai in faccia chi viene a far la comunione: guardo solo le mani che mi tende. Così non so mai a chi do la comunione.
Non è cosa da poco. Perché son cose di cui si parla sempre di più e con toni sempre più aspri e incalzanti. E mentre il male si aggrava e il contagio si estende, le risposte sono sempre le stesse; ma ogni volta meno convincenti. Così finisce che ognuno va per la sua strada: convivenze di fatto, fidanzamenti come vere convivenze, divorzi, seconde nozze (civili).
Così mi ha rallegrato leggere nei giorni scorsi sulla stampa nazionale un coro abbastanza concorde sui discorsi del papa alla tre giorni di Milano: Qualche speranza per la comunione ai divorziati risposati… Ma c’era anche chi titolava: Dove sarebbe il nuovo?
Alla fine ero deluso anch’io. Niente che non fosse stato detto almeno cento volte.
Ecco le parole di Benedetto XVI: «Ai divorziati risposati dobbiamo dire che la Chiesa li ama, devono vederlo e sentire che realmente facciamo il possibile per aiutarli…
Non sono fuori della Chiesa… e anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia, vivono pienamente nella Chiesa…
Il contatto con un sacerdote per loro può essere ugualmente importante (¡sic!), poi seguano la liturgia eucaristica vera e partecipata: se entrano in comunione possono essere spiritualmente uniti a Cristo… (Questa poi: il contatto con un prete ugualmente importante del contatto con Gesù eucaristia!?)
Il problema dei divorziati risposati resta uno dei grandi problemi della Chiesa di oggi: la sofferenza è grande e dobbiamo aiutare queste persone a vivere la loro sofferenza e impegnarci anche nella prevenzione…»!
Allora mi sono ricordato d’aver letto, in questi ultimi tempi, in diversi scritti e interviste del card. Carlo Maria Martini, parole ben più precise e chiare e sull’argomento. E sono andato a ricercarle. Ne riporterò un solo paio annotando solo che sull’argomento con una mezzora di Internet si riempie un intero quaderno.
Il cardinale ha le idee chiare: è «un problema che riguarda moltissime persone, e il cui numero crescerà ancora».
E rispondendo a una domanda dell’interlocutore (don Luigi Verzé) così si esprime: «Lei mi chiede che cosa penso della negazione dei sacramenti a devotissimi divorziati. Io mi sono rallegrato per la bontà con cui il Santo Padre ha tolto la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani», ora però è il tempo di pensare…«alle moltissime persone nella Chiesa che soffrono perché si sentono emarginate, bisognerebbe pensare anche a loro. E mi riferisco, in particolare, ai divorziati risposati». Il cardinale non si nasconde i rischi: bisognerà agire con prudenza «per non favorire leggerezza e superficialità». E sull’argomento dei fratelli divorziati e risposati egli si spingeva «fino ad auspicare un concilio ecumenico proprio su questo unico argomento».
Quanto a lui, Benedetto XVI, ha una via tutta sua da proporre (lo dirò con parole più facili di quelle usate dal papa stesso): gran parte dei matrimoni celebrati in chiesa potrebbero essere dichiarati nulli, per vizio (mancanza) di fede: fede in Dio e fede nel sacramento del matrimonio. Dichiarando nulli tutti questi matrimoni, molti di quelli che oggi sono dichiarati divorziati, sarebbero semplicemente “non sposati”, dunque liberi dal vincolo, dunque potrebbero fare la comunione ogni volta che vogliono. Geniale, verrebbe fatto di dire, degno del migliore gesuitismo classico. Ma allora io mi chiedo: ma perché li sposiamo? Se sappiamo benissimo che molti di quei matrimoni sono fasulli, perché li portiamo all’altare? Perché non abbiamo il coraggio di dir loro di no? Perché alla fine non è mica colpa nostra, Santità: noi ci hanno sempre insegnato a non spezzare la canna incrinata!
Ebbene, mi proverò io a indicarle una strada, Santo Padre, per giungere subito, senza nulla cambiare dell’esistente, a quello che più conta: dare subito a tutti l’eucaristia, come sono, sono, purché siano figli (battezzati).
Perché l’eucaristia – e Lei, per essere un grande teologo, lo sa molto bene – è vero pane: non è un dolce, una leccornia. La leccornia si può negare a un figlio disobbediente, il pane no! MAI!
Questo mio modo di pensare e di parlare, non è arroganza: è solo fede nella Chiesa che è madre nostra. E quale madre potrebbe mai negare a suo figlio debole, ammalato, il pane per vivere, per crescere, l’acqua per bere? L’eucaristia non è sfizio. Senza pane l’uomo non vive (come il riso per i cinesi). Vede Santo Padre: io credo veramente nella Chiesa madre. E mia madre, che mi ha spesso negato un dolce, un capriccio, non mi ha mai mandato a letto senza cena. Senza dolce molto spesso. Senza pane mai. Conosce Lei, Santo Padre, una mamma che possa o sappia negare il pane a un suo figlio, e questo per anni, per tutta una vita forse, solo perché ha sbagliato, le ha disobbedito una volta e ora, se anche ne fosse pentito, non potrebbe più nemmeno tornare indietro, perché se lo facesse farebbe un secondo errore forse più grave ancora del primo? O una mamma che a una pranzo di festa in famiglia, avendo raccolto attorno alla sua mensa tutti i suoi figli, anche chi un giorno l’ha fatta molto soffrire; ma ora che tutti hanno risposto al suo invito, di uno solo dice ai camerieri: servitene a tutti, meno che a lui! Fate porzioni abbondanti, meno che a lui; colmate tutti i calici di vini prelibati, meno che a lui! Che sia presente certo, per vedere quanto è bello essere tutti insieme alla mensa del padre, ma senta anche tutto il peso d’aver un giorno disobbedito a suo padre. Perché nessuno possa dire che la Chiesa nega ai suoi figli un po’ ribelli, la gioia della convivialità: non sia mai! Anzi, venga, venga: potrà venire, seguire la cerimonia, vestirsi di festa, ascoltare la musica, sedersi a tavola con tutti gli altri, vedere i camerieri che dispensano cibo sui piatti e vino nei calici, potrà guardare le gente che prende parte alle danze, tutto a tutti…Meno che a lui! Il suo piatto rimarrà vuoto e i suoi calici asciutti, o, se preferisce, potrà anche farsi mettere i cibi sul piatto e il vino nel calice, perché li possa annusare, perché la tua partecipazione sia più “vera”…solo… non potrà né mangiarne né berne. Così che gliene ne rimanga più vivo il desiderio, e questo desiderio e questa privazione lo salvi.
Forse allora lui le chiederà: Madre Chiesa ma io vorrei avere parte piena alla festa, vorrei mangiare, bere prendere parte alle danze anch’io sentirmi davvero uno di voi, com’era prima. Allora forse gli accadrà di sentirsi rispondere: certo figlio mio, tua madre è misericordiosa: tu puoi avere tutto questo in cambio solo di una piccola mortificazione: che tu ti castri! Non è solo una piccola mortificazione? E sai perché mi accontento di questa piccola mortificazione?: perché so che tu non puoi più tornare indietro, se no faresti un danno ancora peggiore del primo. Allora facciamo così: tu ti castri e io ti perdono.
Bene queste parole io non le posso più tollerare, e dichiaro oggi con piena chiarezza il mio dissenso, e la mia disobbedienza. Se un mio fratello sederà accanto a me alla mensa di famiglia, io magari senza farmi notare, gli passerò sotto banco una parte del mio cibo e del mio calice, e non mi sentirò mai in colpa per questo.
Lo farò per non far morire di fame e di sete il mio fratello, e tentare così la quasi disperata impresa di non costringerlo più a odiare la Chiesa sua Madre.
E a te, Madre Chiesa, una preghiera: cerca di somigliare un po’ più al Padre del prodigo, che per accoglierlo in casa e fargli festa, non gli ha chiesto nessuna mutilazione, anche se lui i suoi soldi l’aveva spesi tutti con le prostitute. Non voler somigliare al Fratello Maggiore, perché saresti anche più odiosa di lui. Perché lui almeno è rimasto fuori lui della festa, tu invece vuoi lasciar fuori solo me!

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