Mentre a Roma si discute nei cuori la fede muore


Al sinodo dei vescovi si è parlato della comunione ai divorziati risposati e qualcuno ha allargato il discorso alle coppie irregolari. Ne hanno parlato l’italiano Bruno Forte, il maltese Mario Grech, lo svizzero Felix Gmur, chiedendo attenzione al dramma dei divorziati risposati.

È intervenuto anche l’arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori,: parole, le sue, per la verità un po’ ambigue, che a me paiono suggerire piuttosto il nulla di fatto: «Nessuno è buttato fuori (sic) dalla comunità per una sua irregolarità di situazione familiare…non c’è mai nessun muro tra la Chiesa e le persone. Si tratta invece di creare spazi in cui, anche laddove non sia possibile una pienezza di comunione che si esprima attraverso la partecipazione all’Eucaristia, ci sia accoglienza per le persone che vivono situazioni familiari “irregolari” rispetto all’immagine del matrimonio che Gesù ci ha affidato e che restino spazi di appartenenza alla Chiesa: di vita e anche di protagonismo ecclesiale nel servizio alla carità, in tanti modi con cui appunto ci si rende membra vive della Chiesa stessa».

Se leggo bene, il cardinale vuol dire questo: se anche dovesse rimanere l’attuale esclusione dalla comunione eucaristica, i laici sappiano trovare gli spazi, che pur ci sono, per un impegno “anche da protagonisti” nella vita della Chiesa. Dal momento che il card. Betori è presidente della Commissione per il messaggio conclusivo del Sinodo, è lecito immaginare che la preclusione rimarrà.

Mentre il vescovo di Firenze così parlava a Roma, un suo prete, don Alessandro Santoro, a Firenze (un “prete di strada”(laRepubblica), andava ben oltre, aprendo l’eucaristia anche agli omosessuali. Egli non agiva di nascosto: aveva annunciato la sua iniziativa con una lettera aperta al suo vescovo, a Betori appunto. Con lui altri due preti e una suora che hanno condiviso la sua scelta per l’obiezione di coscienza di fronte alla disciplina sacramentale della Chiesa. I quattro religiosi invitavano la Chiesa a “smettere di considerare verità assolute quelle che poi dovrà considerare un errore, come accaduto in passato”. Così a Firenze e a Roma.

Molto più modestamente anche a Casalina domenica 21 ottobre c’è stato un piccolissimo evento. Il parroco (chi scrive) ha permesso a quattro suoi parrocchiani – due coppie “irregolari”, cui aveva negato la comunione per anni – di avvicinarsi al sacramento eucaristico in occasione della prima comunione dei loro figli, un ragazzino e una ragazzina.

Non me la sono sentita di dar la comunione ai figli, escludendo i genitori. È stata la mia “prima volta”. Ho sempre rispettato la disciplina canonica e l’ho fatta sempre rispettare. Chi mi conosce si stupiva della mia obbedienza: “tu predichi la libertà, ma poi ti adegui alle leggi; noi stiamo zitti, ma facciamo quel che ci pare”. La mia risposta era una sola: dura lex, sed lex. La legge è legge anche quando è dura. Bisogna lottare e aspettare. Lottare e aspettare: è ciò che ho sempre fatto.

Questa volta ho rotto gli indugi. La Chiesa ama i tempi lunghi che si misurano in secoli (anche 3, anche 4 secoli). Quando finalmente si decide le pecore sono già scappate.

Domenica è stato bello: quasi una prima comunione anche per i genitori che non si comunicavano più da anni (da 15, anche da 25). Si respirava commozione in tutta la chiesa: molti avevano gli occhi umidi, nel vedere avvicinarsi insieme, all’altare, figli e genitori, regolari e irregolari allo stesso modo, alla mensa del Padre comune e del Salvatore di tutti.

Come faccio sempre quando innovo qualcosa, ne ho fatto conoscere prima la ragione. Al momento della frazione del pane, ho spiegato che stavolta avrei spezzato il pane e offerto il calice ugualmente ai figli e ai “cagnolini” (Mt 15,26-27; Mc 7,27-28). Ho anche detto loro che non si trattava d’un improvviso cedimento, ma d’una scelta consapevole e molto sofferta. Molte le ragioni che mi avevano convinto al “gran passo” della disobbedienza e volevo che tutti ne fossero consapevoli: il mio gesto voleva porre un segno, inviare un messaggio a chi a Roma, al Sinodo, continuava a parlarsi addosso rimandando ogni volta una decisione non più rinviabile; a chi aspetta sempre che maturino i tempi e intanto che i tempi maturano i frutti marciscono e caduti in terra se li mangiano i vermi o i porci, o diventano stabbio. Così mi son sentito nascere dentro un gemito: perché sempre quattro secoli dopo? Perché questa maledizione del fuori tempo massimo? E quando questo gemito mi ha strozzato la gola ed è divenuto un singhiozzo ho preso la mia decisione.

Forse qualcuno, fra i miei Lettori, ricorderà che qualche settimana fa scrissi su queste pagine: mai più manderò a letto i miei figli senza cena. Senza la Cena del Signore. Non potevo mancare al mio impegno proprio nel giorno della prima comunione dei loro e dei miei figli.

Perché se è vero che condannare un uomo alla fame eterna significa condannarlo a morte, privare un discepolo di Cristo della comunione al Suo corpo e al Suo sangue può significare una condanna a morte per la sua fede. Né può valere il discorso: “noi non li lasciamo affatto morire: hanno sempre la preghiera dalla loro, possono sempre prender parte alla messa e comunicarsi spiritualmente; resta loro il rosario, la lectio divina, i pellegrinaggi, la carità ai poveri, l’assistenza ai malati… Gli togliamo l’eucaristia, è vero, ma tutto il resto glielo lasciamo, anzi glielo raccomandiamo. Privarli dell’eucaristia li fa un po’ soffrire? È proprio su questa sofferenza che fa conto la Chiesa per la loro piena conversione. O no?

Perché potrebbe essere anche altrimenti: che magari dopo un po’ di volte che invitati anche loro alle nozze ma tenuti lontano dalle tavole imbandite dove viene servito a tutti cibo abbondante e succulento (mentre a loro è concesso solo di guardare e di mangiar bruscolini), finiscano col non farsi più vedere. O non sanno gli zelanti custodi della legge che mangiare di quel Pane e bere di quel Vino è garanzia di vita eterna? Possiamo ancora privare qualcuno di quel pegno di vita? Il pane non è né un premio né un dono. Il pane è molto di più: è un bisogno primario, dunque un diritto. Quale padre terreno, degno di questo nome, oserà negare il pane al figlio affamato, anche se scapestrato o delinquente, se appena appena gliene dovesse chiedere per non morire di fame? Il pane, si noti, non l’aragosta. Se Gesù come segno ha scelto il pane, è proprio per la sua necessità assoluta per la vita.

Perché allora non ho fatto prima quello che ho fatto domenica scorsa? Me lo chiedo anch’io. Forse perché “non era ancora venuta la mia ora”? O magari perché mi ostinavo ancora a sperare che il tempo di cantare il mio gioioso Ora lascia che il tuo servo vada in pace…. fosse proprio imminente. L’ho sperato, finché non ho sentito ribadire ancora una volta che i tempi non sono maturi. Forse bisognerà che qualcuno spieghi ai nostri vescovi che qualche volta è meglio cogliere un frutto quando è ancora un po’ acerbo, se c’è rischio di grandine o di siccità o che qualcuno ce lo rubi. Ai miei “irregolari” ho spiegato che la concessione era data una tantum (almeno per ora). Sempre che Roma non continui ad adottare il metodo che Tito Livio rimproverava ai romani impegnati in Spagna nella seconda guerra punica: di perdere tempo in discussioni mentre Sagunto cadeva. Già, perché potrebbe anche accadere che, quando finalmente i tempi saranno maturi e la legge verrà cambiata, saranno spariti frattanto i fedeli.