Matteuccia ovvero di quella pira l’orrendo fuoco


La storia di Matteuccia di Francesco, o è una storia tragica. Per lei, per la Chiesa, e per la stessa società europea. Cercando di affrontarla con una qualche serietà, credo proprio che non mi basterà una sola pagina, oggi. Metto le mani avanti.
L’idea di scriverci su qualcosa mi è venuta leggendo, su questo giornale, l’articolo di Lucia Pippi del 30 luglio scorso. Un articolo garbato, volutamente “leggero”. Sull’accusa di stregoneria se la cava così: «Era giovane, bella. E sapeva fare incantesimi. Almeno secondo l’accusa che la portò, in un tempo lontano, a essere condannata come strega e per questo bruciata sul rogo… Ma Matteuccia non era niente di tutto questo. Era una guaritrice, una donna che conosceva le erbe e sapeva tirarne fuori unguenti in grado di guarire le ferite».
Ho sempre detestato tutti i roghi, quelli degli eretici e quelli delle streghe. Una tragedia per l’Italia, per l’Europa e soprattutto per la Chiesa. Ma quel «giovane e bella» sembra una licenza non consentita a chi scrive di storia. Specialmente quando la storia è tragedia.
Di Matteuccia si conosce la data di morte (20 marzo 1428) non quella di nascita. E giovanissima non doveva essere, se bisogna dar credito agli atti di un processo che parla di una strega che aveva ormai una piazza che andava ben al di là del suo piccolissimo castellum di origine, Ripabianca, con le sue pochissime centinaia di abitanti.
Matteuccia era certo una strega affermata, la cui fama e attività interessava ormai tutta la bassa Umbria; se di lei si sa che già nel 1420 venivano a cercarla da lontano, e se, soprattutto, di lei si dovette occupare uno dei più grandi e celebri predicatori del Quattrocento italiano, il secolo d’oro del nostro Rinascimento: il secolo di Pico della Mirandola, di Piero della Francesca, di Antonello da Messina, del Brunelleschi, di Leonardo da Vinci! e sai di quanti altri geni universali ancora?!
Del resto tutta l’iconografia europea relative alle streghe ignora la giovane bellezza femminile, preferendo insistere su seni cadenti, cosce o natiche adipose o, al contrario, secche come stecche, chiome sempre scarmigliate, grigie o semplicemente bianche, nasi adunchi, mani come artigli. Stereotipi, certo, non ritratti, ma più vicino al vero di un corpo da Messalina.
Quelle poverette non appartenevano certo alla classe delle belle, né delle fortunate. Le belle non avevano certo bisogno di dedicarsi a un’arte tanto rischiosa come la magia per farsi strada nella vita. La magia è sempre stata la risorsa delle più deboli e forse delle più brutte: malviste, emarginate, povere. Le privilegiate della vita non frequentavano i sabba.
O forse, magari inconsciamente, dietro quelle parole può far capolino un pregiudizio: ma la Chiesa non è stata da sempre misogina? Ancora oggi non è sempre contro tutte le rivendicazioni delle donne? No a tutto: ai liberi rapporti sessuali fra adolescenti, alla libertà di pillola ai minorenni, al divorzio facile o breve, all’aborto assistito, al matrimonio omosessuale, al diritto di adozione per coppie omosessuali, alle “isole” protette per nudisti ecc….?
Perché tutti esempi relativi al sesso? È chiaro: le streghe sono donne; le streghe copulavano coi demoni; le streghe rapivano “sugavano” e uccidevano i neonati; le streghe confezionavano filtri amorosi o filtri di sterilità e d’impotenza per gli uomini; le streghe, trasformate in insetti o in groppa a un demonio o a un bastone volavano ai sabba di Benevento per copulare coi diavoli. Quale meraviglia allora, se una chiesa misogina e teologi bigotti hanno deciso che sì, era giusto perseguirle tutte fino alla tortura, anzi alla morte se necessario, per scontare così le loro nefandezze?
Se qualcuno, fra chi mi legge, lo pensasse davvero, farebbe bene a ricredersi. I diavoli erano solo il contorno: la ragione che tutte le società dell’epoca (non solo la Chiesa) si erano date per poter perseguire quelle donne di cui avevano orrore e paura insieme. Perché, che esse possedessero davvero quei poteri, nessuno al tempo ne dubitava. Ma poiché quei poteri non potevano certo venir loro da Dio, non rimaneva altra spiegazione che il demonio. Perché ciò che faceva davvero paura ai comuni mortali non erano certo i sabba e le loro orge, ma i mali di cui le streghe erano credute essere causa agli umani: fatture, scongiuri, malocchio; pratiche che in certi casi potevano portare anche alla morte.
Grandi geni hanno saputo trasformare queste miserabili credenze in arte assoluta ancora nell’era moderna: Il Trovatore di Verdi, il Faust di Gounod, il Mefistofele di Boito. Delle ultime due dirò qualcosa un’altra volta. Oggi mi “accontenterò” del Trovatore che molto più s’attaglia al nostro caso.
Vi si parla di due streghe, anzi di due zingare, madre e figlia, unite dallo stesso destino del rogo. Due zingare, due emarginate, due respinte dalla società: da sempre. Anche oggi. Due donne, vittime e cause allo stesso tempo di una catena d’orrori che non risparmia chi ha avuto il torto o la sventura di metterla in moto o di lasciarsi prendere nei suoi ingranaggi, non importa se per propria malizia o per l’altrui.
Povere donne, anche loro, di infima estrazione sociale, quasi sempre donne sole, o nubili, o vedove, o madri nubili: le più indifese, queste ultime, “buttate” nel mondo senza rete di protezione. Donne che se vogliono sopravvivere devono sapersi creare uno spazio e procurarsi un “rispetto” che nel loro caso non potrà essere indotto che dal timore di un potere sacro (etimologicamente: diverso, separato, misterioso): quel rispetto che nasce solo dalla paura di un male che me ne potrà derivare attraverso tutto l’armamentario malefico che ho già menzionato più volte. E per chi è stato dalla nascita, o proprio per nascita, condannato a restare e a sentirsi sempre ai margini – disprezzata sfruttata emarginata – la sensazione di potenza che ti procura la paura degli altri, può provocarti autentici brividi d’onnipotenza e lo stesso squallore della tua vita può farti sentire in alto, tanto in alto da poter guardare tutti gli altri dall’alto in basso. È allora che la solitudine può anche diventare un privilegio.
Proprio a quest’ultimo tipo di streghe doveva appartenere Matteuccia, visto il genere di accuse che le vengono rivolte e i sortilegi di cui è stata accusata e per la quale è dovuta salire sul rogo. Una fattucchiera molto “qualsiasi”, a cui la storia ha riservato un posto d’eccellenza assi poco invidiabile: quello, sembra, d’essere stata le prima a salire sul rogo, aprendo una strada che a centinaia, forse a migliaia, avrebbero percorso dopo di lei.
Dalla prefazione alla pubblicazione del testo curata meritoriamente da Domenico Mammoli nel 1969, citerò questo breve passaggio per rendere più tecnico il discorso: «Unguenti, tratti da carni e grassi di cadaveri, polveri ricavate da ossa di morti pagani (non battezzati), [quindi nella grande maggioranza di bimbi morti senza battesimo, obrei o scomunicati, ndr], intrugli composti da erbe, ciocche di capelli bruciate e ridotte in polvere, penne di volatili, topi, unghie di mula, sono gli ingredienti classici delle fatture consigliate, elaborate ed attuate dalla Matteuccia per guarire malati, per seminare odio, per ridurre a miglior ragione innamorati stanchi o delusi. Il tutto condito da una serie di complicate formule magiche che ricalcano invocazioni religiose popolari sia pure profanate da “spirito diabolico”».
A me interessa qui sottolineare come l’odio profondo verso queste donne, si sposasse perfettamente al terrore che queste donne incutevano a causa degli stessi poteri che erano loro riconosciuti. Già, perché tutta la tragedia delle streghe e della stregoneria è proprio qui: nel fatto che di quelle stesse arti che tu aborri, tu stesso hai, insieme, paura e fede: li odi, e ricorri a loro; le maledici ma ne hai bisogno; e la strega che ti tiene in pugno con la paura, tu vuoi ingraziartela perché potrà farti comodo; la vorresti vedere sul rogo perché ti fa tanto schifo e paura, ma intanto la coccoli.
Il rogo assume dunque la doppia valenza di giusta pena e di purificazione: perché la strega è un elemento inquinante che inquina anche te nel momento in cui a lei ricorri. Mandandola al rogo, ti liberi anche di quel tanto di cui tu stesso ti sei reso colpevole per avervi fatto ricorso. Gridare “al fuoco! al fuoco!” diventa allora il grido liberatore da tutti i malefìci della strega e di tutte le vigliaccherie che tu hai commesso quando hai fatto ricorso a lei, o, davanti a lei, ti sei vilmente inchinato. E rimani in questa ambiguità finché non ti ricordi che la strega è, anche lei, una donna, una figlia, una mamma. Proprio come Azucena, la zingara de Il Trovatore. Ed è solo allora che ne provi pietà. Come quando qualche pazzo demente appicca il fuoco ai campi rom delle nostre città. Quando se ne contano i morti.

Da Il Trovatore di Giuseppe Verdi
Canto di Azucena, la zingara

Stride la vampa! la folla indomita
corre a quel fuoco, lieta in sembianza!
Urli di gioia intorno echeggiano;
cinta di sgherri donna s’avanza;
sinistra splende sui volti orribili
la tetra fiamma che s’alza al ciel.
Stride la vampa! giunge la vittima
nero vestita, discinta e scalza;
grido feroce di morte levasi;
l’eco il ripete di balza in balza;
sinistra splende…
……
(La madre condotta al rogo, scorge la figlia tra la folla)
Condotta ell’era in ceppi al suo destin tremendo!
Col figlio sulle braccia, io la seguìa piangendo.
Infino ad essa un varco tentai, ma invano, aprirmi…
Invan tentò la misera fermarsi e benedirmi!
Ché, fra bestemmie oscene, pungendola coi ferri,
Al rogo la cacciavano gli scellerati sgherri!
Allor, con tronco accento: Mi vendica! esclamò.
Quel detto un’eco eterna in questo cor lasciò.
…..
Azucena (rivolgendosi a Manrico)
Un giorno, turba feroce l’ava tua condusse
Al rogo… Mira la terribil vampa!
Ella n’è tocca già! già l’arso crine
Al ciel manda faville!…
Osserva le pupille
Fuor dell’orbita lor!… ahi… chi mi toglie
A spettacol sì atroce?
……
Azucena
Sei vendicata, o madre!

Di Matteuccia ho parlato troppo poco? Rimando tutti a una prossima volta.

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