L’ergastolo l’inferno… e Dio


Lunedì 24 laRepubblica riportava un articolo di Adriano Sofri che parlava dell’ergastolo. Di quello vero. Di quello che non finisce mai. Dove mai significa mai! Quello a cui si applicano bene le terribili parole di Dante nel canto III, v.82: non isperate mai veder lo cielo.
Si tratta di un tipo di ergastolo di cui Sofri stesso ignorava fino a poco tempo fa l’esistenza.
Ergastolo ostativo si chiama. Ostativo: per dire che questo tipo di pena si oppone, osta, a ogni tipo di riduzione di pena. Chi vi entra ne esce solo a piedi pari. In una bara.
Sofri ci ragiona un po’ su, e aiuta anche noi a ragionarci. Il suo giudizio è severo: l’ergastolo è incostituzionale. Possibile, ti chiedi, che per più di 60 anni nessuno ci abbia mai pensato?
Sofri è netto: la legge è incostituzionale, perché la Costituzione italiana prevede che le pene siano rieducative e mirino al reinserimento del reo nel tessuto vitale e produttivo della società. Egli scrive: «In Italia c’è da sempre una discussione sull’ergastolo. Se ne è richiesta a più riprese l’abolizione come d’una pena disumana, vendicativa, negatrice della possibilità di riscatto e per questo negatrice della Costituzione». Peccato che «il peso opprimente della criminalità organizzata» abbia tolto l’argomento dall’odg.
Sofri continua sviluppando l’idea della sterilità “della pena eterna”: a che, o a chi serve? Perché uno, a cui è stata tolta anche la speranza, dovrebbe convertirsi al rispetto delle norme del carcere e delle persone che gli stanno attorno? Al contrario: perso per perso, si adoprerà per garantirsi il massimo delle comodità e del “potere” fra i suoi compagni di sventura. È quello che han sempre fatto i boss in galera.
Procedendo nella lettura dell’articolo, mi accorgevo che la mia attenzione si andava trasferendo dal testo di Sofri a un altro pensiero che mi nasceva dentro facendosi sempre più invadente, imperioso.
Stavo passando da un mondo a un altro, a me più familiare: universo carcerario anche questo, ma infinitamente più triste, tetro, oscuro, tragico, disperato: quello sì davvero eterno, dove il mai equivale a un per sempre cui neppure la morte potrà mai dare una fine, dove l’atroce verso dantesco trova il più radicale inveramento: «e io etterno duro:/ lasciate ogni speranza o voi ch’entrate» (Inferno, III, 8-9).
Qui sto parlando dell’inferno, quello vero, quello di cui ci parla qualche volta il Vangelo e che la Chiesa troppo spesso ci richiama come dogma di fede, dunque come qualcosa che sei obbligato a credere, perché se non ci credi non puoi neppure sperare di sfuggirgli, perché un dogma va creduto come verità omnino de necessitate salutis, come «assolutamente necessaria alla salvezza» (Bonifacio VIII).
Traduciamo: o credi nell’inferno, o finirai all’inferno, proprio perché non ci credi. Come dire: si condanni all’ergastolo chi ne chiede l’abolizione. Perché un dogma si crede, non si discute. Se no si va all’inferno.
Forse proprio qui è il vero nocciolo del problema. Malgrado il Vaticano II, vi è ancora nella Chiesa chi crede d’avere il diritto di imporre un certo articolo di fede. Dimenticando, che già Tommaso d’Aquino lasciava sempre l’ultima parola alla coscienza. Non certo alla coscienza di chi, la coscienza ha già provveduto ad anestetizzarla ben bene, ma alla coscienza viva, educata all’onestà e alla verità.
Eppure il Vaticano II ha finalmente dichiarato che la libertà religiosa e di coscienza è un diritto inalienabile, e che nei casi di dubbio e di contrasto fra le diverse istanze, ognuno ha non solo il diritto, ma perfino il dovere di seguire la propria coscienza, dovendo solo a questa rispondere. E questo anche nel caso di contrasto con le norme e le leggi di Santa Romana Chiesa. Del resto chi meglio della Chiesa sa di quanti errori è costellato il suo cammino e quante volte Giovanni Paolo II ha dovuto chiedere perdono per gli errori commessi dalla Chiesa nel corso della storia?
Resta un fatto che l’inferno, nella sua formulazione più classica, rappresenta uno scandalo per milioni di uomini.
«Soltanto gente crudele può aver inventato l’inferno. Nessuna persona dai sentimenti umani, potrebbe sopportare l’idea che un uomo, solo per aver contravvenuto alle norme morali del suo clan, possa essere condannato a soffrire eternamente senza nessuna possibilità di riscatto» (Bertrand Russell, filosofo).
Altri ci vedono un espediente dei preti per garantirsi un potere: «Naturalmente è l’inferno, non il paradiso, che rende potenti i sacerdoti» (H.L. Mencken, giornalista e saggista).
«A causa dell’inferno ho cominciato a ribellarmi contro la fede; la prima cosa di cui mi sono disfatto è la fede nell’inferno, come un assurdo morale… Perché anche un inferno, mi dicevo? Quest’idea mi tormentava» (Miguel de Unamuno, filosofo e scrittore).
Voci discordi non mancano neanche nella Chiesa cattolica, sia antica sia (più numerose ancora) moderna. Capostipite fu Origene con la sua dottrina dell’apokatastasi (“restaurazione”: ritorno alla purezza originale di tutte le cose, dannati e demoni compresi, dopo la loro purificazione nelle pene dell’inferno), ripresa da Gregorio di Nissa, Teodoro di Mopsuestia, Scoto Eriugena fra gli antichi), ma che fu condannata dal concilio di Costantinopoli del 553.
Ai nostri giorni, chi più chi meno apertamente, l’hanno ripresa in molti: F. Schleiermacher, Karl Barth, Giovanni Papini, Erich Przywara, Henri de Lubac, Gabriel Marcel, lo stesso Joseph Ratzinger, Adriana Zarri, P. De Benedetti, Walter Kasper, Gisbert Greshake, Romano Guardini, Karl Rahner,Vito Mancuso, Ernst Bloch. Gerald O’Collins e Mario Farrugia. Anche F. Dostoevskij la evoca nella leggenda del Grande Inquisitore. Brillante “l’invenzione” dello svizzero Hans Urs Von Balthasar (al quale devo in gran parte questo elenco di nomi): «l’inferno esiste ma può anche essere vuoto». E Teilhard de Chardin, si chiede come si potrebbe parlare di universale redenzione in Cristo se l’inferno ne fosse escluso?
Altri invece, sperano che Dio, piuttosto che condannare qualcuno all’inferno, lo annienti proprio del tutto. Meglio il nulla che il male. Sofri sarebbe d’accordo: non ha senso una vita senza speranza. L’ergastolano almeno può sperare nella morte. Il dannato neanche in quella!
E allora la domanda: perché dovrei credere in un Dio meno buono dell’uomo? Se l’uomo civile ha orrore dell’ergastolo, come potrei imputare a Dio un fuoco eterno? Come potrebbe l’inferno essere degno dell’amore di Cristo? Mi dici che Dio non è solo amore, ma anche giustizia? Eppure Qualcuno ci ha detto che più grande di tutto è l’amore. Quale madre condannerebbe un figlio a un fuoco eterno, qualunque colpa egli possa aver commesso? Ciò che non può fare una madre, come potrebbe farlo Dio? Un Dio più giusto che buono? Più giudice che padre? Anzi, che madre?
Era il 10 settembre 1978 quando Giovanni Paolo I trovò il coraggio di rilanciare una parola dei Padri della Chiesa, dimenticata per secoli. «Noi siamo oggetto, da parte di Dio, di un amore intramontabile: Dio è papà, più ancora è madre»! Mi piace pensare che quel giorno fu abolito l’inferno!
Mi conforta una frase di sant’Agostino: “tra il tuo peccato e l’inferno c’è l’oceano infinito della misericordia divina”. So di essere salvo. La mia barchetta non potrà mai coprire quella distanza.

rappresentazione de L'Inferno di Andrè Goncalves
L’Inferno di Andrè Goncalves

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