La fede ai tempi delle streghe: la contraddizione


Infandum, regina, iubes renovare dolorem… Sono le celebri parole con cui Enea inizia a raccontare alla regina Didone di Cartagine, la fine di Troia la sua città.
Un dolore che non si può raccontare, per il quale ogni parola è inadeguata.
È esattamente il mio stato d’animo nell’affrontare questo terzo e ultimo articolo sulla maledetta storia delle streghe e dei processi di stregoneria celebrati nell’Europa cristiana fra il 1428 e i primi decenni del XVII secolo, quando, nel giro di soli due secoli, si sono accesi i fuochi di almeno 60.000 roghi per almeno 110.000 processi a donne per maleficio e stregoneria.
È come se qualcosa m’impedisse d’essere sereno mentre ne scrivo. Questo qualcosa ha due nomi: vergogna e rabbia. Di che? Di tutto: d’essere europeo, d’essere cristiano, d’essere prete. Soprattutto d’essere uomo.
Vergogna e rabbia, per esempio perché un santo importante come Bernardino da Siena me lo ritrovo qui nei panni del pasionario dei roghi per le streghe: un santo al quale, per altro, mi sento molto vicino per la sua predicazione contro le ingiustizie sociali. Un innamorato del nome di Gesù, e un grande pacificatore di fazioni cittadine, che però si scatena quando parla di streghe: «E però dico che là dove se ne può trovare niuna (: qualcuna) che sia incantatrice o maliarda, o strega, fate che tutte siano messe in sterminio per tal modo, che se ne perdi il seme; ch’io vi prometto che se non se ne fa un poco di sacrificio a Dio (: non se ne ucciderà qualcuna, come in sacrificio), voi ne vedrete vendetta ancora grandissima sopra le vostre case, e sopra a la vostra città. E scrivarovelo (: ve lo scriverò) ancora con le lagrime agli occhi, che la cagione de’ danni vostri sarà in parte questa. Doh, fate quello ch’io vi dico: datene un poco d’odore a Domeneddio (suvvia fate un po’ di carne bruciata in onore di …). Non aspettate (che venga) la vendetta di Dio». Non vi fa venire i brividi?
Proprio a Todi aveva predicato Bernardino, qualche tempo prima del processo a Matteuccia: la sua predicazione aveva avuto, come dovunque in Italia, un successo travolgente. Difficile pensare che l’esito di quel processo non ne abbia risentito.
Ma perché poi dovrei sentirne rabbia e vergogna? Che c’entriamo, io e la mia fede, con Bernardino di Siena? E poi lo so bene che il fatto d’essere un santo non lo dispensò d’essere un figlio del suo tempo. Perché, anzi, del suo tempo Bernardino fu figlio dalla testa ai piedi. La sua stessa predicazione contro gli usurai, contro gli omosessuali, contro gli ebrei, contro la vanità delle donne, sembravano già in qualche modo preludere alla predicazione del Savonarola.
Ma allora perché tanto odio, in un santo, per quelle povere donne, accusate di far sesso coi diavoli, di succhiare il sangue dei bambini, di banchettare con le carni dei neonati, di trasformarsi in animali vari, anche solo in mosche o altri insetti o rospi per poter volare sulla groppa dei diavoli verso il noce di Benevento, per prendere parte ai sabba, dove si rendeva omaggio a satana baciandone la mano, il piede e l’ano e poi lanciandosi in un vorticoso amplesso orgiastico in cui intere schiere di diavoli e di streghe si danno a forme di sesso inesausto?
Perché questa è la domanda: come si poteva dar credito a tutte queste fandonie? E chi era che le metteva in circolo? Erano le streghe medesime per darsi credito davanti ai loro “clienti” o alle streghe concorrenti? O erano le calunnie dei due poteri egemoni del tempo, la chiesa e l’impero (o il regno), che terrorizzati da quei racconti che parlavano di migliaia e migliaia di streghe, nel Nord Europa ancor più che da noi, avevano cominciato ad averne proprio paura? O più semplicemente l’ignoranza, del tempo più che delle persone: perché come volete che non ci credessero i poveri, se anche i dotti ci credevano?
Fu così che dalla Spagna al Portogallo dall’Italia alla Germania, dalla Francia all’Inghilterra si eressero tribunali e si approntarono sale di tortura e si predisposero strumenti processuali in grado di estirpare quell’antico male dalle radici.
Quei poteri sapevano bene che àuguri e indovini, maghi e fattucchieri, stregoni e pitonesse erano vecchi di secoli, forse di millenni ed erano comuni a tutte le antiche civiltà del Mediterraneo. Se i nomi erano diversi nelle diverse culture e nei diversi popoli la realtà non cambiava: strega, da strix (latino: uccello notturno che succhiava il sangue e le viscere dei lattanti e deponeva sulle loro labbra gocce del suo latte capace di dar loro la morte; lamia (greco, mostro femminile che succhiava, anch’esso, il sangue dei lattanti); e ancora malefica; muliercula: tutti nomi per dire la stessa cosa: l’orrore verso il male che si nasconde dietro la porta della casa accanto, insospettabile.
Proprio questo carattere di irriconoscibilità a prima vista, fu alla base delle diverse tecniche di riconoscimento e poi di processo alle streghe. Per prima cosa si dette libero corso a alle denunce anonime: addirittura si arrivò a mettere nelle chiese, importata dalla Scozia, una cassetta (Indetto) dove ognuno poteva far cadere un nome, un indirizzo, un’accusa e le presunte prove; l’anonimato per invogliare alla delazione. L’accusa poi aveva sempre la presunzione dalla sua: a difendersi doveva pensare l’accusato. Ma non ci si accontentò di raccogliere denunce: le si volle incoraggiare, anzi forzare: se conosci qualcuno sospetto di stregoneria e non lo denunci, sei scomunicato. Denunciandolo ne avrai merito davanti a Dio.
Ma quando, e dove, erano nate queste favole? I latini, si sa, ne erano grandi consumatori, da sempre. Àuguri e aruspici erano in grande onore; le sibille e i loro oracoli richiamavano grandi folle. La stessa cosa in Grecia e dovunque era arrivata la cultura greco-romana.
Se le risposte non erano soddisfacenti, si cominciava a parlare di tortura: se ne descrivevano i tormenti, si facevano arrivare agli orecchi della malcapitata le urla, vere o inscenate che fossero, per terrorizzarla, se ne mostravano gli strumenti. Le stesse le prigioni erano un incubo: strettissime e molto buie (le streghe, si diceva, hanno paura del buio). Le domande suggerivano già le risposte che ci si aspettava; gli inquisitori le incoraggiavano. Se confessi finisce tutto, e tu sei libera. Ma non sempre era vero. Alla donna sotto processo, venivano cambiati gli abiti (temendo nascondessero qualche sortilegio) e rasati i capelli.
Il processo alle streghe era un terreno franco da qualsiasi norma di diritto penale: ogni rispetto delle norme era sospeso. Qualche esempio? Per autorizzare la tortura bastava che l’accusata tenesse costantemente gli occhi a terra; che avesse lo sguardo cattivo o una brutta faccia; che fosse figlia di streghe o di stregoni, che fosse solita bestemmiare, che non portasse addosso una croce o un rosario. Ci fu perfino chi sentenziò che si potevano uccidere anche i bambini indiziati di stregoneria, «siano essi puberi o impuberi». Ma non bruciati: impiccati (Henry Boguet, 1603).
Il giudizio dei moderni è giustamente severo con i metodi dell’inquisizione: si parla volentieri «di sconcertante aberranza della ragione che portò giudici togati e giuristi di fama non solo a sostenere il dovere della persecuzione, ma a fornire mezzi processuali tra i più raffinati per la loro intenzionale destinazione a realizzare sempre e necessariamente il riconoscimento dell’ipotesi delittuosa e le condizioni utili per la condanna» (Alfonso di Nola ).
In pratica, se nessuno potrà dire che da un carcere dell’inquisizione non si poteva uscire che morti, sarà certo vero che non era facile uscirne vivi. E anche quando non morivi, ne uscivi certo profondamente segnato e prostrato nello spirito. Come fu per Galileo Galilei.
Ora forse il lettore capirà perché dicevo sopra che scrivendo di queste cose provo solo vergogna e rabbia. Perche a fare queste cose erano gente che credeva quello che credo io, che amava quello che amo io, che sperava quello e – in Quello! – in cui spero io. Ma allora come han potuto emettere quelle sentenze e accendere qualcosa come 60.000 roghi?
Allora sono andato a cercare l’origine di quelle idee, e ho trovato quello che segue.
Difficile sottrarsi alla domanda: come poterono uomini tutt’altro che volgari, come Bernardino da Siena, uomini di squisita umanità e davvero innamorati di Dio come San Roberto Bellarmino, lasciarsi sedurre da monete di così basso conio?
C’è una sola risposta possibile, a mio giudizio: quelle “verità” erano lì, pronte da sempre, credute da tutti, proprio come fu del “fermati sole” di Giosuè, finché non vennero Quei Tre a farci cambiare idea a tutti. Ma ce ne volle. Copernico, Keplero, Galileo: senza di loro il sole ancora girerebbe! C’era da capirli: erano risposte bell’e pronte da sempre e il mondo era sempre andato avanti bene. E il sole s’era levato ogni mattina. Che altro volevi sapere?
Era tutta roba vecchia ma di buona qualità: roba pagana, ma nobile (Plinio, Omero: la maga Circe), e cristiana (concili di Ancira, 314; di Elvira, 340; IV di Cartagine, 398 presente S.Agostino). Aveva attraversato indenne tutto il primo millennio incrociando Reginone di Prüm (915) e i sommi scolastici (S. Alberto Magno, S.Tommaso d’Aquino, S.Bonaventura da Bagnoregio).
Le ascendenze storiche: andavano dalla dea lunare Diana, a Erodiade, la madre di Salomè, quella della testa di Giovanni il Battista da consegnare alla madre. C’erano ascendenze sciamaniche, non meno interessanti, perché proveniente da tutt’altra area, (Slavi e Germanici) con i loro pleniluni e i suoi lupi mannari, che prima o poi era fatale s’incontrassero con il sabba delle streghe. E infine con il mondo e la cultura dei paesi agricoli, coi suoi riti legati al culto della fertilità della terra. E della donna. A questo filone si riallacciano i Benandanti del Friuli, destinati a incontrarsi un giorno agli stregoni della Baviera, della Svizzera e dell’Alsazia, dove li attendevano i miti e le figure della mitologia (ipo)ctonica (:sotterranea) dai nomi a noi ignoti: Holda, Perhta, Abundia, Satia. E poi come escludere del tutto dalla partita ipotesi patologica, psichiatrica? Le streghe, creature suggestionabili, sai quante cose possono aver creduto d’aver visto realmente e se lo sono solo fantasticato. A caro prezzo.

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