Dio, la particella di Dio e… io


Tutto è nato, sembra, da una censura alla quasi imprecazione: goddamn particle (la particella maledetta) che doveva entrare nel titolo di un opera di L. Ledermann sull’ormai celeberrimo bosone di Higgs (1993); imprecazione a evocare la difficoltà di afferrare, controllare e gestire l’indispensabile verifica sperimentale di un’intuizione che il tempo avrebbe rivelato esatta e di decisiva importanza per la fisica teorica e non solo.
Ora che l’esperimento del Cern di Ginevra ne ha offerto la prova sperimentale, la sua conoscenza è ormai patrimonio universale. È già molto, ma a qualcuno non basta: ora che sappiamo come l’energia si trasforma in materia che ce ne facciamo più del vecchio decrepito dio? Che sia la volta buona per un bel definitivo de profundis?
Ma oggi non intendo raccogliere la sfida. Sarebbe facile del resto rispondere: ora sappiamo cosa è avvenuto un decimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang. Però sarebbe istruttivo sapere anche cosa c’era un decimo di miliardesimo di secondo prima del Grande Botto. Ma su questo sorvolo.
Oggi mi sta a cuore parlare d’altro: dirò ciò che ho detto giovedì 5 luglio, alle ore 21,00, alle 7 o 8 persone che erano raccolte con me nell’ora di adorazione nella chiesa parrocchiale di Casalina.
Sono partito da lì, dal bosone di Higgs e dal successo dell’esperimento. Ho precisato che per ciò che riguarda l’esistenza di Dio, l’esperimento non sposta di un millimetro le nostre conoscenze. Crede in Dio non chi crede di avere buone ragioni per “crederci”, ma chi ha avuto occasione, almeno una volta nella sua vita, di “incontrarlo” in un volto, in un fatto, in una parola. Dopo averlo conosciuto, non saprebbe più rinunciarci.
Non crede in lui, invece, chi nella sua vita non ha fatto altro che “cercare le ragioni” del credere o del non credere. Quasi sempre si finisce col negare. Chi si avventura in questa ricerca, per ogni che trova, trova un altrettanto valido no; per ogni guadagno trova anche una perdita, per ogni orizzonte che gli si apre altri dieci se ne chiudono. Spesso finisce con il trovarsi d’accordo con i versi famosi: «Meglio oprando obliar senza indagarlo / questo immenso mister de l’universo» (G.Carducci, Idillio Maremmano). Meglio fare che filosofare.
Così finisce quasi sempre chi cerca ragioni per credere. Col non credere.
Che dire? Dico che non saprà mai cos’è l’amore chi lo cerca sui libri. Mai potrà amare chi non ha mai incontrato una persona che gli ha fatto conoscere l’amore. Chi non ha sofferto per amore. Chi non ha gioito per amore. Chi non ha mai pianto per la paura di perderlo. Chi non ha mai esultato per averlo ritrovato.
Amore è al tempo stesso gioia e disperazione, salvezza e perdizione, benedizione e dannazione. Finché non l’avrai incontrato non lo puoi sapere e quando l’hai conosciuto forse è troppo tardi per salvarti. Che poi tutto questo abbia il suo prezzo, il suo contrappeso, i suoi svantaggi, questo sarà certo un motivo assai valido per decidere fra il sì e il no e ci saranno sempre buone ragioni per perdersi completamente nel suo vortice o per fuggirlo come la peste.
Così cercavo di far capire a chi mi ascoltava che chi non “pratica” Dio avrà assai poche speranze di conoscerlo e amarlo e dunque di cercarlo. Esattamente come tu non ami una persona se non l’hai mai “incontrata”; se la sua presenza non ti si è “imposta” come succede sempre nell’innamoramento. E solo quando, essendotene innamorato/a, sarai capace di ridurre tutto il resto nell’unità di quell’amore, tu potrai dire di conoscere veramente l’amore. E di amare veramente. E di credere e perderti per ritrovarti in colui che ami.
Allora ho cercato di spiegare a loro (ma parlavo soprattutto per me stesso!) com’è triste la vita di chi dice di credere in Dio senza riuscire ad amarlo, perché di quella fede sente solo il peso, poiché ciò che essa ci vieta quasi tutto ci piace, e ciò che essa invece ci comanda di fare…beh, faremmo tanto volentieri a meno di farlo.
Ho cercato di spiegar loro (e a me stesso) che la colpa non è dell’alcol se ne bevo troppo, o del tabacco se ne aspiro troppo, o del motore troppo potente se lo spingo troppo, e così via… E che Dio non sta lì a vietarmi proprio niente, se non a dirmi: attento, ti puoi far male! Non possiamo abolire i medici, solo perché “ci rompono”. Ho cercato di spiegar loro che è bello esser certi che «Dio s’alzerà sempre mezz’ora prima del mio sole» che andrà a dormire solo mezz’ora dopo che m’avrà sentito russare.
Ed è bello sapere che tutti quelli che avrò amato sulla terra e che mi mancano tanto, li ritroverò “lassù”, nel “lassù” di Dio che è “Dio stesso quaggiù”, nel mio proprio “quaggiù” dove lui mi inabita.

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