Ratzinger I e II: se la storia fa un passo indietro


Stamattina m’ero svegliato un po’ preoccupato. Non sapevo assolutamente su che cosa avrei potuto scrivere. Niente mi ispirava. Poi il signor Renzo, l’amico che ogni giorno porta i due giornali che siamo soliti leggere al mattino intanto che ci beviamo un caffè e ci diciamo le prime impressioni su quello che leggiamo, sfogliando laRepubblica mi dice: «Legga qui, “Basta col celibato dei preti” l’appello del giovane Ratzinger». Col caffè m’era stato servito l’argomento dell’articolo.
Non è certo la prima volta che ne scrivo. Anzi è un tema che ricorre abbastanza di frequente nei miei scritti. Non è certo una stranezza. Chi scrive sui quotidiani e in genere sui periodici, è condannato a ritornare spesso sugli stessi argomenti, in genere ogni volta che quelli tornano d’attualità sui media. Quando giornali, libri, televisioni, riviste, cinema ne trattano, quello è il momento di riparlarne. Tanto “repetita iuvant” dicevano i latini: ripetere le cose aiuta a capirle e a ricordarle meglio.
Eccomi così di nuovo a parlare di celibato dei preti. Ma mi si concederà: l’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire: non mi capita tutti i giorni d’essere in pieno accordo con ciò che pensa un papa. O almeno, con ciò che pensava un futuro papa.
E la prima cosa da sottolineare è la data del documento da lui sottoscritto. «Era il 9 febbraio 1970, e Ratzinger aveva appena 42 anni»; così Andrea Tarquini, corrispondente del quotidiano romano in Germania.
Dunque Ratzinger, segnalatosi già durante il Concilio Vaticano II come uno dei più giovani e brillanti teologi “transalpini” (era venuto al seguito del Cardinale Frings, arcivescovo di Colonia), amico e collega di Hans Küng (l’altra punta di diamante dell’ultima generazione dei grandi teologi tedeschi), aveva già rotto il suo sodalizio con Tubinga e con Küng, ed era approdato a Ratisbona e alla sua più tranquilla scuola di teologia.
Malgrado questo, Ratzinger non aveva ancora rotto del tutto con il suo pensiero giovanile e non aveva fatto ancora “il passo indietro” che lo avrebbe portato, non molto tempo più tardi, prima sulla cattedra di Monaco di Baviera e più tardi ancora a Roma, a guidare per circa un ventennio la sacra Congregazione per la dottrina della fede.
Che non avesse rotto ancora con quel pensiero è dimostrato proprio da questa perentoria richiesta che l’ancor giovane teologo firma con altri otto giovani colleghi tedeschi. Le parole mostrano, con chiarezza perfino un po’ sorprendente, la determinazione del gruppo.
Ciò che li muoveva a quel passo era il timore che di lì a poco si sarebbe dovuto assistere alla disobbedienza di massa di sacerdoti e fedeli, a una gravissima crisi delle vocazioni, a un massiccio esodo di preti e di credenti dalla Chiesa, a una carenza grave di sacerdoti all’altezza del loro ministero e alla conseguente perdita di contatto con la realtà della vita d’oggi. Ecco i pericoli che Ratzinger e gli altri otto teologi indicarono nella lettera segreta, così come li sintetizza il corrispondente dalla Germania.
Questa lettera in realtà non fu mai resa pubblica, perché fu pensata e gestita secondo “l’aureo principio”, da sempre in onore nella Chiesa cattolica, che le “quaestiones disputatae”, i punti di maggior frizione nella Chiesa vanno trattate “in camera caritatis”, cioè nella riservatezza e nella prudenza d’un confronto interno e riservato. Ecco le parole dei nove teologi riportate da laRepubblica: «Pieni di timor di Dio, poniamo la questione della situazione d’emergenza della Chiesa. Le nostre riflessioni riguardano la necessità urgente di una riflessione e di un approccio differenziato sulla legge del celibato della Chiesa; siamo convinti che ciò sia necessario al più alto livello ecclesiastico». Non è che la prosa manchi di una certa “unzione”: i giovani teologi si erano rivolti ai responsabili della Chiesa tedesca in segreto, sperando evidentemente che il loro appello avrebbe trovato ascolto e incontrato attenzione. Ma non fu così. Continua Andrea Tarquini: «La lettera di Ratzinger e degli altri otto, fu ignorata e non è nemmeno chiaro se la Conferenza episcopale tedesca la inoltrò a Roma o no».
Ora, quasi esattamente nel suo 41° anniversario, quella lettera è spuntata fuori in qualche modo ed è stata diffusa dalla Süddeutsche Zeitung, autorevole quotidiano cattolico, molto diffuso nella Germania meridionale. Insisto a richiamare la data della lettera: 1970. Era l’inizio dell’esodo, della fuga dei preti dalle parrocchie e dalle diocesi, dei frati e dei religiosi dai conventi e dai monasteri, sia maschili sia femminili: quella fuga di cui oggi stiamo raccogliendo e pagando tutte le conseguenze.
Cominciava lo spauracchio di una Chiesa senza ministri, senza personale in grado di continuare a portare avanti l’ingente (o, forse meglio) l’immenso patrimonio di beni ereditati da epoche ben più religiose e devote della nostra. Da qualche anno la Chiesa aveva dato vita a un’ingente opera di rinnovamento delle sue strutture: una voce per tutte, i nuovi seminari maggiori e minori che nel breve volgere di uno o due decenni avrebbero chiuso i battenti o sarebbero passati a nuovi e diversi usi: scuole, uffici ecc.
Il giovane Ratzinger aveva condiviso quelle ansie e quelle previsioni, e bisogna dire che aveva visto giusto. Cosa può dunque averlo spinto a tornare in seguito sui suoi passi e a tornare a difendere il vecchio equilibrio e lo “status quo ante”? Qui il discorso per me si fa complesso e delicato, ma lo affronterò senza mezzi termini, proprio partendo da una frase di quella lettera, riportata dall’articolo fra virgolette, dunque alla lettera (almeno spero).
Ecco quelle poche parole: «Chi ritiene superfluo un simile chiarimento ci sembra abbia poca fede nell’invito del Vangelo e della grazia di Dio». E qui i nove teologi «ricordavano come il celibato nella Chiesa fosse una legge, ma non un dogma».
È sulla prima di queste due ultime frasi che intendo richiamare l’attenzione, perché è un concetto che ritorna spesso nei miei scritti quando parlo delle difficoltà della Chiesa nei nostri tempi. Perché, nella vulgata comune, uno che avanza osservazioni, o anche critiche alla Chiesa e alle sue scelte vuoi pastorali vuoi disciplinari, vuoi teologiche vuoi strategiche (come spesso capita anche a me di fare), viene immediatamente tacciato di scarsa fede. E invece no, se lo faceva anche il Ratzinger teologo giovane e ancora fresco di entusiasmo e di fede calda ed entusiastica. È proprio del profeta parlare senza pesare le conseguenze, senza dar troppo spazio ai distinguo: arte che invece è propria del potere; e della diplomazia che, del potere, è sempre al servizio.
Il giovane professore di Ratisbona poteva ancora firmare appelli che il Ratzinger prefetto della Sacra Congregazione per la dottrina della Fede, non solo non avrebbe più potuto firmare, ma neanche lasciar passare fra le strette maglie della sua rete.
Sembra che l’apparizione di quell’appello a cui nessuno doveva aver più pensato, abbia creato un qualche sconcerto in Germania, dove il papa è atteso per il prossimo settembre. Eppure quei nove teologi avevano visto giusto e avevano lanciato l’allarme. Se poi la cosa non ha prodotto effetti, la colpa non è di chi allora gridò “al lupo, al lupo!”, ma di quelli che hanno continuato a dormire, sperando in Dio. E in Dio certo dobbiamo sperare e aver fiducia, tanta!, ma senza mai pensare che poi venga Lui a cavare per noi dalla brace le castagne, magari anche marce, che improvvidamente ci abbiamo messo sopra noi.

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