Casalina: quando un nome è un destino


Può anche sembrare una bella favola ferragostana. Una di quelle che nei tempi antichi si raccontavano dai nonni ai padri e dai padri ai figli, nella veglie di chiacchiere e di preghiera nelle stalle dei contadini o attorno al focolare.
La storia d’un piccolissimo gruppo di casette o casupole o ‘casalini’ che dir si voglia dove viveva solo povera o poverissima gente dedita al lavoro dei campi, della terra di cui essi, tutti, erano “servi”.
‘Servi della gleba’ li chiamavano: dove la parola latina, ‘gleba’ sta per zolla di terra. Non tanto servi di un padrone, dunque, ma proprio della terra, perché questo era il diritto del tempo: chi lavora la terra appartiene alla terra, perché chi possiede la terra non lavora la terra, ma la farà lavorare ad altri, accontentandosi (!) , lui, di goderne i frutti.

Terminologia 1
Villa, niente a che fare con la nostra accezione moderna di casa “solitamente elegante, con parco e giardino, situata sia in campagna sia in zone pregevoli per paesaggio clima e visuale”; nelle grandi città il termine villa si dà piuttosto al complesso parco-casa principesca di grande valore sia storico sia artistico si ambientale (Villa Borghese, Villa Doria-Pamphili…). Nel linguaggio medievale (Boccaccio) indica un modesto centro rurale, dotato di qualche modesta attività, sempre rurale, abitato da gente di basso rango, da cui il termine ‘villano’, per indicare un uomo di basso livello sociale.

Terminologia 2
Affrancazione: era l’acquisizione del diritto di lasciare il fondo di terra del quale si era servo. Era cioè la libertà di lasciare la terra per iniziare un’altra vita, un altro mestiere, un’altra arte.. In una parola, libertà di costruirsi un altro destino.
Questa libertà poteva essere un atto libero e gratuito del padrone, o un premio per la devozione dimostrata nel servizio, o una ricompensa promessa in cambio d’un servizio particolarmente gravoso, o poteva anche essere una conquista combattuta e sofferta da parte d’un singolo individuo o d’una città o d’un intero popolo.

Servi della Gleba: un importante, anzi fondamentale istituto medievale, su cui si è retta per secoli l’economia e la vita sociale dell’Europa occidentale e non solo.
Servi della gleba anche come destino: chi è nato da quella ‘zolla di terra’, cioè da chi quella terra la lavora, sarà anche lui servo di quella terra, tanto che se il padrone quella terra la vende, anche chi la lavora cambierà padrone.
Il servo della gleba, intimamente legato alla terra, non poteva arbitrariamente sottrarsi a quella cura, non poteva esser lui a decidere. Solo con il consenso del signore/padrone del fondo, un servo della gleba poteva lasciare la sua “zolla di terra” per dedicarsi a una diversa attività (clericale, militare, commerciale, artistica, intellettuale). Era questa una notevole sottrazione di libertà certo, che aveva però anche un vantaggio: il padrone non poteva cacciare il suo servo da quella terra. Che poi il diritto cedesse, anche spesso, all’arbitrio del più forte, questo è un altro discorso, ahimè valido ancor oggi.
L’unica via di uscirne pacificamente, e dunque senza ritorsioni pesanti e anche violente, era quello di ottenere l’affrancazione.
Quando questo avveniva, chi ne beneficiava (singolo individuo, famiglia, città o popolo che fosse veniva “affrancato”, reso “franco”, cioè libero. Il termine “franco” venne a indicare una precisa categoria di persone, quasi una particolare dignità, un titolo di distinzione molto ambita.
Di questa avvenuta promozione civile resta spesso un segno nel nome. Villafranca (un nome di città abbastanza diffuso in Italia, anche nella versione Francavilla) sta per “città affrancata”, cioè dichiarata libera, dunque non più tenuta a certi doveri, tributi, o segni di vassallaggio o sottomissione. Anche nel cognome d’un uomo o d’una famiglia questo è vero, e innumerevoli sono i Franchi in Italia. Questo rimarrà vero anche quando di quelle storie si sarà perso anche il ricordo e il cognome si tramanda di padre in figlio senza più saperne il perché.

Terminologia 3
I servi della gleba coltivavano i latifondi che appartenevano ai proprietari terrieri, pagando un fitto, per lo più in natura. Inoltre dovevano pagare le decime (qualora il proprietario facesse parte del clero o fosse un ente ecclesiastico) ed erano obbligati a determinate prestazioni di lavoro. I servi della gleba erano tali per nascita, non erano schiavi e i loro compiti, obblighi e doveri erano precisamente definiti.
A differenza degli schiavi, non venivano considerati “cose” ma persone, avevano diritto alla proprietà privata (solo beni mobili, dunque non terre e case), potevano sposarsi, avere figli, ai quali potevano lasciare un’ eredità. Il feudatario non aveva diritto di vita e di morte sul servo della gleba, era però in suo potere venderlo insieme alla terra: e se il servo era tenuto ad accettare il nuovo padrone, questi era almeno tenuto a mantenerlo al suo posto.

Proprio il desiderio di uscire dalla terra, di conquistare l’aria libera della città, fu uno dei principali punti di frizione fra le istituzioni civili e religiose e gli stessi sudditi della terra. La Germania seppe esprimere quest’ansia di libertà meglio che ovunque altrove: «Stadtluft macht frei», l’aria della città rendere liberi.
La Chiesa stessa era una delle maggiori potenze terriere dell’Italia del tardo medioevo ed è evidente che questa aspirazione alla libertà l’abbia coinvolta direttamente, provocando spesso rivolte, sommosse e, da parte sua, repressioni.
Ciò che accadeva in Europa, in Italia e dovunque si fossero creati latifondi, si avverò anche in questo modesto tratto della media valle del Tevere, dove l’abbazia benedettina di San Pietro manteneva il suo pur sempre ragguardevole patrimonio.
Così Olga Marinelli, in un suo breve studio del 1954 descrive la situazione creatasi in quel primo volgere della seconda metà del sec. XIII.
«Esistono nell’archivio di San Pietro documenti, finora completamente inediti, che rivelano il determinarsi di un inasprimento dei rapporti creatosi tra i monaci e i coloni e che culminerà con l’affrancazione degli uomini di Casalina…I nostri documenti ci riportano alla metà del sec. XIII, in quella atmosfera ormai colma di aspirazioni alla libertà e caratterizzata da rivolgimenti attuati in tanti campi della vita: in quello politico, economico, religioso, culturale» [O.Marinelli, L’affrancazione degli Homines di Casalina nel territorio perugino, (1270)].
«Come si può ben comprendere, le città che avevano adottato per prime le nuove istituzioni democratiche, esercitavano grande attrattiva sui villani, «tanto più che gli stessi comuni erano propensi a questo affluire di uomini che, nell’esercizio dell’artigianato o del commercio, avrebbero favorito lo sviluppo economico della città» (ivi).
Una mano dovette darla anche il movimento francescano con il suo trascinante esempio alla fraternità e all’accoglienza verso tutti, specialmente degli ultimi. Potrebbe in realtà non essere affatto un caso che Assisi sia stata la seconda città in Italia (1210, contro Pistoia 1205) a decretare con una “Concordia” che d’allora in poi i “rustici” sarebbero stati esenti da tutte le prestazioni servili.
Si contano forse sulle dita di una sola mano (almeno nell’elenco della Marinelli) le città che avrebbero preceduto l’affrancazione degli uomini di Casalina nel 1270. Del resto solo così si spiegherebbe l’ampolloso titolo di Villa de’ Franchi, o di Homines franchi de Casalina, di cu i suoi villani furono fregiati (o di cui essi stessi presero orgogliosamente a fregiarsi). Tanto che quel ricordo vi è rimasto vivo per ben sette secoli e mezzo. Solo nel 1983 si è spento l’ultimo suo testimone, Bruno Tiacci, un modesto artigiano di Casalina, che quasi moderno Filippide non ha voluto morire senza aver passato prima il suo prezioso testimonio, a chi avrebbe potuto apprezzare il valore del suo lascito: fu il giorno in cui mi disse che un tempo a Casalina c’erano i Franchi. Chi fossero quei franchi non seppe dirmi, ma bastò a mettermi sulla strada giusta. I Franchi erano quei “villani” di Casalina, che tra i primissimi in Italia seppero conquistarsi il glorioso titolo di Homines franchi de Casalina. Uomini liberi: sapete immaginare un titolo di nobiltà più alto di questo? Gli unici a potersene fregiare (Marsciano l’ottenne 9 anni più tardi).
Così mi è accaduto spesso di pensare, in questi ultimi anni, che forse è stato giusto che io venissi a vivere e (molto probabilmente) a morire proprio qui, a Casalina, nella Villa degli Uomini liberi, io, che quando ero giovane, mi sono visto negare una cattedra universitaria per la sola ragione che «Santantoni è un uomo libero». Libero: una ragione sufficiente per escludermi da una cattedra universitaria. 704 anni dopo!
Ecco perché ho scritto in un libro che spero di pubblicare fra poco, che Casalina era forse per me un destino. In parte l’ho accettato, in parte l’ho subito. Ora, in tutto e per tutto, lo faccio mio.
Quella affrancazione portò sfortuna al castello. Sei anni dopo il Comune di Perugia con la benedizione dell’abate di San Pietro, entrambi stanchi e preoccupati dei disordini che si ripetevano a Casalina (per motivi su cui tornerò l’anno prossimo alla stessa data) mossero contro il piccolo castello e lo ridussero in macerie. Gli ci vorrà quasi un secolo per risorgere. Ma questa è un’altra storia.

Conclusione
Il 15 agosto 2020 saranno 750 anni dall’avvenuta affrancazione degli nomine di Casalina. Vorrei (e vorremmo) che Casalina cogliesse l’occasione per riproporsi al suo territorio come aveva saputo fare un 30-40 anni fa. Per tornare a dare il meglio di sé. Ne saremo capaci?
È una scommessa.