Ascensione, o le diverse presenze dell’assente


Erri De Luca è un finissimo scrittore di cose bibliche, un innamorato di una Scrittura che è sacra per ben tre grandi religioni, tuttora vive e presenti sulla terra: ebrei, mussulmani, cristiani, in tutto o in parte vi si riconoscono.
Ma Erri De Luca non crede in Dio: «Da lettore assiduo di scrittura sacra frequento l’ebraico antico delle prime storie, dei profeti, dei salmi raccolti nell’Antico Testamento. L’usanza quotidiana non ha fatto di me un credente. La mia esperienza di lettore accampato fuori delle mura dipende, per me, da due inciampi.
«Il primo è la preghiera, questa potenza e possibilità del credente di rivolgersi. Dare il “tu” a Dio, con le variazioni che stanno tra l’imprecazione e la supplica, è l’arbitrio meraviglioso della creatura che risale alla sua origine e l’interroga, la chiama, la scuote dalla sua distanza. Chi ha esclamato per la prima volta la prima preghiera non può averla inventata. Può solo aver reagito a una chiamata con una risposta, come Abramo col suo “hinnèni”, eccomi. Eccomi è la prima parola, la premessa di ogni preghiera». Confessa: «non lo so fare… Non so rivolgermi. Non so il pronome della preghiera… Parlo di Dio in terza persona, leggo di lui, sento parlare di “lui” (si riserva il diritto di usare la minuscola “perché chi non crede non ha il diritto di usare la maiuscola”)…Con tutto questo rimango uno che parla di Dio in terza persona. Il mio piede urta ogni giorno in questa pietra della preghiera, non la può scavalcare, perché la preghiera è la soglia…
«L’altro inciampo è il perdono. Non so perdonare e non posso ammettere di essere perdonato. È bestemmia per il credente, per lui non c’è colpa che non possa essere sollevata da Dio». Ma per lui, se mai gli «capiterà di non ripetere un torto, sarà per lo scarto del tempo, per l’età che si fa adulta e accumula stanchezza, non per un pentimento… Nella mia vita c’è una soglia dell’imperdonabile, del non più riparabile. Non posso ammettere di essere perdonato, non so perdonare quello che è commesso. Ecco le mie pietre d’inciampo per le quali resto fuori della comunità dei credenti,» (E. De Luca, Nocciolo d’oliva, p.5-8) .
Grande innamorato delle scrittura (anche questa con la minuscola) egli inizia ogni sua giornata con un brano della scrittura, rimanendo però sempre al di qua di quella soglia dove inizia la fede. E poiché oggi la Chiesa celebra la festa dell’ascensione, mi vien bene quello che lo stesso De Luca, che pur dice di non crede, scrive sull’ascensione di Gesù. E lo fa da par suo, come chi, non credendo, si rammarica di non poter credere.
«Il libro chiamato Atti degli Apostoli comincia con l’ultimo allontanamento di Gesù, la sua sollevazione in cielo. Gesù ha continuato ad apparire ai suoi per quaranta giorni e Luca ci tiene a scrivere che lo videro vivo, dunque non come una visione, ma in pienezza fisica». Questa loro sicurezza della vita ritrovata da colui al quale era stata tolta, è alla base di quell’enorme fatto che fu e che tuttora è il cristianesimo.
De Luca racconta così l’ascensione di Gesù. Al termine del loro ultimo incontro sul Monte degli Ulivi, «gli apostoli lo vedono issarsi su di loro e galleggiare (sic!) in alto fino a scomparire in una nuvola. Oltre non vedono, oltre i sensi non vanno, né i loro, né i nostri. Oltre c’è solo la fede e quella forza che scende dall’alto, afferra una persona e la lancia nel mondo a raccontarla».
Questa era stata la sorte e il compito dei testimoni diretti, colui che è mandato nel nome di Dio ad annunciare la fede agli uomini. A chi? A quanti questa fede non hanno: come lui, De Luca, che conosce la scrittura infinitamente meglio di me, ma che non ha la fede; ai molti che come lui, De Luca, «non hanno forza né fede», che però «possono almeno riconoscere» in quelli che hanno quella fede «l’impronta digitale, l’orma di scarpa di Dio. Allora anche uno che stenta col cielo, può diventare testimone indiretto. Anche se non ha visto Gesù issarsi (!) in aria, può dire d’aver visto la forza di fede scendere in un suo simile. Può dire d’aver visto in un altro la notizia» (p.34).
Queste ultime parole sono notevoli e introducono un motivo che torna nel pensiero del non credente De Luca. Alla pagina 87 egli, commentando un altro passo della scrittura scrive:«Dio parlò a voi da dentro il fuoco: voce di parole voi ascoltate e immagine non vedete, all’infuori d’una voce» (Dt4,12).
Altrove, lo stesso De Luca precisa che le sue versioni sono solo sue, distinguendosi da quelle ufficiali delle diverse confessioni per il rigore letterale della traduzione.
Così qui egli tiene a sottolineare: «ancora qui torna un voce da vedere oltre che da ascoltare». E poco più avanti egli traduce così un versetto del Deuteronomio: «Non dimenticherai le parole che hanno visto i tuoi occhi» (Dt 4,9).
Si possono mai “vedere le parole”? Sembrerebbe di sì, stando al grande innamorato non credente della “parola scritta”. Vi si può vedere infatti un’attenzione del pur terribile Dio dell’Antico Testamento: oggi «quell’ascolto nessuno saprebbe più reggerlo. A distanza di sicurezza, attraverso la piana scrittura di un libro noi ci facciamo ammonire… Oggi quelle parole le possiamo vedere leggendo l’esperienza fisica di quelle avventure sacre, al sicuro di quella voce infuocata che travolgeva i sensi di chi era interamente, in carne e ossa e nervi tesi, in ascolto» (p.89).
A noi, che non abbiamo avuto la ventura di vedere gli eventi nel loro compiersi, nel loro “avvenire”, resta almeno la possibilità di avvicinarci ad essi mediante la parola scritta. Così è anche delle parole e dei fatti riguardanti Gesù. E questo lo dobbiamo a coloro che ce ne hanno tramandato memoria scritta. Certo molto è andato perduto. Delle parole di Gesù ci rimane solo “qualcosa”. Scrive De Luca: «Attraverso i vangeli leggiamo schizzi di un discorso che fu torrenziale. Una provvidenza fa somigliare questi scritti a cisterne d’acqua piovana, che trattengono almeno qualcosa secondo le loro capacità. Ignoriamo il timbro della sua voce…Eppure sono bastati i vangeli per non dimenticare le parole di chi non volle scrivere né lasciare scritto. Chi non ha fede non si disseta. Ma chi ha la grazia di averla è vincolato da un compito enorme: dare di quest’acqua bevuta una testimonianza nella durata della sua vita. Così facendo riempie le pagine che i vangeli hanno dovuto lasciare vuote. Così facendo riporta in superfice l’acqua che è finita fuori da quelle cisterne» (p.97).
Non è questo un grande finale per un modesto articolo di giornale? Sentire un “non credente che, malgrado non abbia, lui, il dono della fede, esorta noi che l’abbiamo, a non lasciare né disperdere né imputridire nelle cisterne l’acqua buona che la Parola e la Grazia han potuto raccogliervi. Che sappiamo anzi recuperare gran parte dell’acqua che non vi ha trovato posto, ma che si trova ancora assorbita nel terreno circostante o dispersa su ciò che ci vive intorno. Come? Restituendola ai destinatari sotto forma di profezia e testimonianza. Perché anche chi non è attrezzato per scendere nella cisterna, possa attingere alle goccioline rimaste appese alle foglie degli alberi o ai fili d’erba. Perché ognuno ne abbia la sua parte.