Quel divorzio come un virus? Non ci avevamo pensato


«Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare, afferma il vecchio proverbio. Vale anche per chi va con i divorziati. Avere un amico, parente o collega che divorzia, aumenta considerevolmente la probabilità che una coppia si separi, secondo uno studio scientifico pubblicato in questi giorni.
In altre parole, sostengono gli autori della ricerca, il divorzio è “contagioso”: proprio come un virus. Condotto da sociologi e psicologi di tre importanti università americane (Harvard, Brown e la University of California), lo studio ha riscontrato che il divorzio di un amico intimo o di un parente stretto accresce di un incredibile 75 per cento le chances di divorziare tra chi lo conosce. Il divorzio di un “amico di un amico”, di un conoscente, di un collega che si conosce solo di vista, aumenta la probabilità di divorziare del 33 per cento. La presenza dei figli ha un effetto moderatore su questa forma di “contagio sociale”, come la definiscono gli scienziati statunitensi: l’influenza di un divorzio nella cerchia ristretta di amici si riduce in proporzione al numero di bambini che una coppia ha. Insomma, più figli si hanno, minore è l’effetto di vedere che amici e colleghi si separano. Il divorzio non ha bisogno di avvenire nelle vicinanze: anche la fine di un matrimonio a migliaia di chilometri di distanza, ma in una coppia di amici o parenti, può spingere a fare altrettanto.
Gli studiosi americani hanno basato le loro rivelazioni su statistiche riguardanti un ampio gruppo di persone di entrambi sessi per un periodo di ben 32 anni. (E. Franceschini su La repubblica, 5 luglio,2010)
Non è mia intenzione rimettere qui in discussione la legittimità della legge sul divorzio. In realtà è già da molto tempo che io sono convinto che la Chiesa in quanto tale, meglio farebbe a non prendere posizioni troppo nette quando questioni di tale portata etica, sociale, politica, e soprattutto umana, vengono poste all’ordine del giorno dell’azione legislativa d’un governo. I governi, in una società multiculturale e multietnica, devono fare leggi buone per tutti. Sarà poi affare dei singoli cittadini orientare il proprio comportamento secondo la propria fede o la propria etnia.
Questo d’altra parte non vuol dire neppure che il pensiero e la coscienza cristiana deve tirarsi indietro quando questi formidabili problemi guadagnano l’attenzione dell’opinione pubblica e dello stesso legislatore. Facendo ricorso a un linguaggio il più possibile semplice e immediato, esporrò quello che penso nel modo più facile e diretto possibile.
Bisogna essere grati alle tre università americane, perché ci hanno dato la conferma di ciò che la Chiesa ha sempre sostenuto e di cui, io personalmente, sono sempre stato convinto e ho sempre sostenuto: il divorzio è un male sociale “contagioso”.
Votai contro la legge sul divorzio nel referendum del 1974. Non lo feci tanto per motivi teologici e tanto meno ideologici, ma proprio sulla base del convincimento che l’introduzione del divorzio in una qualsiasi società non potrà rivelarsi, alla lunga, che un potente incentivo a divorziare. A parte i primi anni di assestamento, i dati statistici sono tutti a senso unico:
1980 sep. 29.462 div. 11.844
1990 sep. 44.018 div. 27.682
1999 sep. 64.622 div. 33.852
2006 sep. 80.407 div. 49.534.
Questi dati confermano in pieno i risultati delle tre università americane e al tempo stesso i mie primitivi timori: il divorzio produce divorzi. Come ogni virus, come ogni contagio, anche il divorzio è favorito dalla vicinanza o dal contatto: non sarà esaltante per i sostenitori del “divorzio-scelta-di-civiltà”, ma credo che a questo punto sia difficile dubitarne.
Questa è una ragione più che valida perché il cattolico, indipendentemente dalla sua fede nel sacramento, rifiuti il divorzio come una soluzione praticabile alle crisi matrimoniali, e preferisca opporsi anche sul piano legislativo alla legislazione pro-divorzio, al divorzio facile, al divorzio veloce. Per il cattolico l’unità della famiglia è un bene che va difeso per sé stesso.
I genitori hanno diritto di rifarsi una vita, si dice dall’altra parte, ma nessuno sembra ricordarsi che i figli hanno diritto ad avere presso di sé i propri genitori. Nessun diritto dei genitori può valere il diritto del figlio. Loro hanno voluto il figlio, non è mai vero il contrario. E questi sono valori di civiltà, non di fede. Il valore sacramentale è un di più per il cristiano, ma già la natura e la civiltà basterebbero.
La verità è che oggi viviamo nella non-civiltà del tutto-ciò-che-mi-piace-è-mio- diritto, su cui nessun altro potrà mai mettere bocca.
Detto questo a giusta difesa dell’unità e della stabilità della famiglia, mi pare che si possa aggiungere qualcosa su un altro problema molto presente alla sensibilità dei moderni: la severità della Chiesa verso tutti i divorziati ugualmente, siano essi colpevoli della rottura o innocenti, che l’abbiano cioè provocata o, al contrario, subìta. Ebbene su questo, io credo, che si possa e si debba riflettere in modo anche nuovo.
Certo il cattolico sa che il divorzio è un male. E sa pure che anche quando certi mali sono inevitabili, questo non toglie che restino un male. Per esempio: tagliare un piede è certamente un male, questo però non esclude che in certi casi sia necessario tagliare il piede. E quando questa situazione si determina, allora tagliare il piede non solo non sarà più un male, ma potrà anche accadere che esso diventi l’unica cosa da fare per il bene di colui, cui il piede stesso appartiene. Chi di noi non ha dovuto lasciare qualcosa cui teneva molto per conseguire un bene maggiore? E tra una vita d’inferno in coppia e una vita serena da soli, non potrebbe talvolta accadere che la scelta dell’inferno risulti proprio la scelta sbagliata?
È proprio quando matura nella coscienza dei coniugi l’inutilità, o forse anche l’impossibilità di continuare la vita in coppia che la Chiesa potrebbe elaborare una nuova strategia che sappia tener conto della difficoltà della convivenza quando sono venuti meno l’amore, la pazìenza, la sopportazione reciproca. Quando soprattutto insorgono fatti nuovi e gravi, a volta anche gravissimi. A questa punto a me pare francamente insufficiente l’azione della Chiesa che si limita a prendere atto della fine dell’unione e magari acconsente alla separazione legale, negando a tutt’e due, non importa se colpevoli o innocenti, la possibilità di rifarsi una famiglia, pena la negazione del sacramento dell’eucaristia. Questa è la prassi e questa è la dottrina, ma non condivise da tutta la civiltà cristiana.
E io allora mi devo accontentare di auspicare un’epoca in cui sarà finalmente riconosciuto al coniuge innocente, una volta accertata la sua innocenza, di potersi rifare una vita, con la benedizione del Signore, con l’ammissione all’eucaristia. E mi piacerebbe che anche alla parte colpevole, e magari risposato, fosse accordato, dopo un congruo itinerario penitenziale, il ritorno alla comunione eucaristica. Monstra te esse matrem vorrei dire alla mia Chiesa, e come ogni madre che meriti questo nome, mostrati benevola anche a chi ti chiede il perdono per il suo peccato.

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