Primo maggio: e la festa sopravvisse al lavoro


Sono abbastanza avanti negli anni per ricordarmeli, quei Primi Maggio del secondo dopoguerra, quei vecchi camion pieni gremiti di uomini delle fabbriche e delle campagne, tutti in piedi, che cantavano a squarciagola Su fratelli e Bandiera rossa. Nelle loro mani i bastoni sui quali garrivano le bandiere rosse, e le falci e i martelli che sembravano gridare con la voce stessa degli uomini «ha da venì’!
Li guardavo dal bordo del prato davanti a casa mia. Non avevo ancora dieci anni, ma è ancora vivo in me il senso di ammirazione e di sgomento davanti a quello spettacolo miserabile e grandioso insieme: niente di più ruspante, di più casereccio di quell’accolta di braccianti, contadini, operai, tutti compresi del ruolo storico che stavano assolvendo: preparare la levata di quel sole che non poteva mancar di venire, di levarsi alto nel cielo per dare inizio a una nuova era della storia umana: l’era della giustizia e dell’uguaglianza fra tutti i figli di Adamo. Sui loro volti, dismessa la maschera della fatica e del bisogno, brillava la coscienza della nuova dignità conquistata, l’orgoglio di sentirsi finalmente artefice del proprio destino.
Sentendoli gridare in quel modo, mi chiedevo cosa avrebbe mai
fatto quell’uomo, se fosse venuto davvero. Qualcosa di minaccioso in quelle voci e in quelle facce non mi rendeva del tutto tranquillo.
Un paio d’ore più tardi li avrei rivisti sfilare, stavolta a piedi, in corteo, davanti a casa mia, le bandiere rosse roteanti sopra le teste accaldate perché non avessero ad afflosciarsi per mancanza di vento, e io, sempre lì, sul campo davanti a casa, che continuavo a guardarli con ammirazione e apprensione insieme, mentre i timorati di Dio se ne stavano chiusi in casa, a guardare dalle finestre, tra le persiane o dai balconi delle case, pregando Dio che non venisse mai Baffone, per non far piangere il papa, il dolce “Pastor angelicus”, come Nostradamus aveva chiamato, cinque secoli prima, Pio XII.
Com’è lontano quel tempo: lontano soprattutto dal cuore di gente appagata e disperata come non mai. In questi sessant’ anni, anno più anno meno, troppe cose son passate per poter far finta di non essercene accorti.
Sessant’anni che hanno visto cambiamenti tanto profondi e veloci da non trovare molti confronti possibili nella storia dell’umanità: l’introduzione del divorzio e dell’aborto nelle legislazioni civili, la rivoluzione sessuale, le coppie di fatto omo o etero che siano, le convivenze che fanno ormai concorrenza ai matrimoni, l’emancipazione della donna, il Sessantotto, il disastro di Chernobyl, il terrorismo islamico e il crollo delle Torri gemelle, il Vaticano II e la discreta restaurazione postconciliarie, l’avvento dell’euro e la crisi dell’economia e della finanza mondiale, la disoccupazione e il lavoro precario eretto a metodo, la fuga dalle campagne prima e dalle fabbriche poi, l’esodo delle stesse fabbriche verso Paesi più a buon mercato, l’immigrazione e la nuova ghettizzazione e discriminazione razziale, la “bamboccizzazione” delle nuove generazioni e tutto quanto serve a disegnare un profilo della nuova antropologia all’alba del terzo Millennio.
Contro cosa si potrebbe oggi alzare un pugno che stringe un telefonino e quale inno potrebbe cantare chi ha gli orecchi tappati dall’iPod? la Festa del Lavoro resta nel calendario, mancano i lavoratori per festeggiarla.
Ma qualcosa del genere, sempre sulò Primo maggio, si sta verificando anche nella Chiesa cattolica, Nel 1955, Pio XII pensò che poteva essere giunta l’ora di cercare di togliere ai partiti della sinistra il monopolio del Primo Maggio. Era l’epoca dei Comitati civici di Luigi Gedda e del movimento “Per un mondo migliore” del gesuita p. Riccardo Lombardi, il celebre “microfono di Dio” che per opporre «un muro al comunismo» aveva percorso tutta l’Italia predicando nelle chiese, nelle piazze, nei teatri contro il pericolo bolscevico.
In quel periodo nacque l’idea di tentare di sottrarre ai marxisti l’esclusiva sul Primo Maggio, affidandone la titolarità a San Giuseppe, il mite e laborioso falegname di Nazaret.
Non era un procedimento nuovo; tutta la storia del calendario cristiano ne era stato informato, a cominciare dalla pasqua e dal natale. È quanto oggi sta avvenendo, per una specie di contrappasso, con le feste cristiane, di cui il calendario civile, improntato al culto del consumo, si va impadronendo per trasformarle in altrettante feste del bengodi e del turismo di massa. Lo stesso San Giuseppe ne fa le spese. Oggi non saranno in molti ad andare a messa.
Ma quello che accade al Primo Maggio dei cristiani accade anche a quello laico. Se in pochi andranno a messa, non molti di più, o forse meno ancora saranno quelli che andranno ai comizi.
Questa festa, segnata da una storia di tragedie è nata per ricordare quattro operai uccisi dalle forze dell’ordine nel 1886 a Chicago e fu celebrata per la prima volta nel 1890 per ricordare quei martiri. Nel 1923, in Italia fu soppressa dal regime fascista e tornò in auge solo nel dopoguerra.
Oggi è il Primo Maggio: chi lo festeggerà ancora? Gli operai? Dove sono più gli operai che non siano precari o già preavvisati di licenziamento? Quelli al sicuro negli uffici statali o regionali o comunali, Non vanno in piazza. Come potrebbero festeggiarlo quelli che hanno già in mano un preavviso di licenziamento?
Probabilmente in piazza, come già avviene da un po’ di anni, ci saranno solo i giovani a rimorchio delle stars del rock o del pop. Solo per loro ormai si muovono i delusi del nostro tempo; quelli che non trovano lavoro e neppure lo cercano più; che quando lo trovano, non lo accettano perché non gli piace; che quando lo accettano non sanno difenderlo, perché il lavoro che c’è non lo vuole più nessuno (per quello ci sono gli immigrati), e quello che tutti vorrebbero, nessuno glielo darà (quello c’è solo per i figli di quelli che contano).
Ho davanti agli occhi le facce tese, angosciate dei metalmeccanici di Termini Imerese e delle loro mogli e madri, che si chiedono che succederà per loro, quando la Fiat se ne andrà da quegli stabilimenti. Amaro Primo Maggio per i tanti come loro.