La fortuna d’essere “over”


“Over”che cosa? O “over” quanto?
Mah, nel caso mio, “over” settanta; per altri, più fortunati ancora, si potrà anche pensare agli ottanta, o anche più su, o di poco più giù.
Fortunati? E perché? Quale fortuna può costituire l’essere tanto avanti negli anni da dover comunque pensare che rispetto a quello che hai vissuto, ben poco ti resta da vivere? Che discorso può essere mai un discorso così?
È il discorso d’un settantenne, che ritiene di poter pensare e dire che, in fondo, quel che la vita gli ha dato è molto più di quel che gli potrebbe togliere ora. Un discorso che può valere per molti della mia età.
Questo settantenne ha attraversato la guerra, ma era tanto piccolo che le poche cose che ne ricorda non bastano a ingenerare in lui angoscia e amarezza. Qualche fuga giù per i vicoli verso il rifugio e poco altro. Ma non ricorda la fame, le notti al buio, il terrore delle sirene, il pianto delle famiglie in lutto: era solo un bambino “under “cinque.
È cresciuto negli anni del miracolo economico, quando bastava formulare un desiderio, un progetto, e già potevi pensarlo realizzato: così molti ebbero la prima Cinquecento, per altri fu la Lambretta; fu il salto verso la libertà: il mare o il lago alla tua portata. Chi non ricorda quelle domeniche in fila “verso la libertà”?
A tavola la carne c’era ormai tutti i giorni, spesso a pranzo e a cena; anche sulle mense degli operai, di quelli che prima, i polli, il maiale, il vitello li allevavano era solo per venderli, per farli mangiare ai ricchi: a loro quei soldi servivano per pagare il dottore e le medicine. Poi vennero le vacanze al mare, o in collina o in mezza montagna. Ancora più tardi vennero i primi viaggi all’estero, o la passione di massa per gli sci e gli abiti griffati.
Intanto scoppiava la febbre dell’edilizia, le città divennero formicai, le case si trasformarono in alveari, il traffico urbano divenne un incubo e una camera a gas. Le campagne si spopolarono e tutti trovarono che vivere nei formicai e negli alveari era molto meglio che vivere nelle piccole case di paese o nei grandi casoni di campagna da cui provenivano. Anche in provincia la febbre del mattone colpi duro: tutti vollero farsi la “loro” casa, o facendola ex novo, o migliorando la vecchia. Poi divenne sfizio restaurare i rustici.
I soldi correvano, il consumismo (più compri più vali, più consumi più sei) era divenuto la nuova religione di massa: se non consumi non cresci, se non cresci torni indietro, se torni indietro non sei nessuno. Nelle famiglie ognuno ebbe la sua macchina, i cellulari – dapprima uno status symbol – finirono per diventare culto maniacale (due, tre o anche più a testa, sempre alla caccia dell’ultimo modello).
Poi ci fu la conquista della luna, il boom dell’informatica, l’esplosione di Internet: la vita di molti cambiò in meglio o fu rovinata del tutto. I progressi della medicina e della chirurgia, allungarono, e viepiù allungano, la vita degli italiani, fino a rendere la stessa sopravvivenza un angoscioso problema sia per il vecchio sia per la famiglia.
Si potrebbe continuare. Ma questo può bastare a farci ripercorrere quegli anni entusiasmanti e fragili, nei quali è doveroso mettere a confronto le virtù e le ombre che li hanno segnati per sempre: il Sessantotto, il movimento studentesco e quello femminista, il terrorismo e le Brigate rosse, le stragi di mafia e la profonda crisi delle istituzioni repubblicane tuttora in corso. Chi li ha vissuti, sa di aver attraversato un periodo straordinario, il più lungo in assoluto senza guerre in Europa; ma ora teme d’aver fatto parte di quella che potrebbe essere stata l’ultima generazione che ha potuto vivere nella speranza, anzi quasi nella certezza, che la nuova generazione avrà sempre condizioni di vita migliori di quella che l’ha preceduta.
Dal 2007-2008 in poi le cose non stanno più così. Oggi lo stato d’animo più diffuso è l’apprensione, peggio ancora la paura. Ci si consola col dire che «ha da passà ‘a nuttata». Ha da passà, ma intanto siamo in piena notte, fonda, nera, turbinosa. Il lavoro che non c’è o che svanisce da un giorno all’altro; mutui che diventano, – con gli anni –, insostenibili; giovani che non trovano più la porta per uscire dalla famiglia perché poi non saprebbero più di che vivere; matrimoni che vanno sempre più spesso a rotoli, coppie che si formano senza sposarsi né in chiesa né in comune, soglie del sesso attivo sempre più basse, già a undici-dodici anni (ma non manca chi dice che tutto questo non sia poi un gran male, anzi…).
Quanto a me, prete, si aggiunge un altro motivo d’inquietudine e quasi di angoscia: veder la Chiesa nella quale e per la quale vivo – che ho potuto vedere dall’interno nel suo momento di massimo splendore, il Concilio – annaspare in un’opaca mefitica palude di fango e di lordura nella quale tanti dei suoi uomini, anche di spicco, annegano miseramente. Si aggiunga il clima di svendite di fine stagione che si respira in tanta parte della Chiesa.
A questo non ero preparato. Mi ero preparato a lottare, a soffrire in trincea; mi hanno messo in una comoda retroguardia a preparare dispacci per le truppe al fronte. Così si è acuito in me il senso dell’inutilità. Poi penso: dài, coraggio, sei un “over” settanta. Non ne avrai più per molto. Datti da fare a spremere da te stesso quanto hai di meglio.
No, questo mondo non mi piace più, e se penso di doverlo lasciare, provo assai più sollievo che dispiacere. Spero solo di non esserci più quando verrà quel Big One che “ha da venire”, non importa di quale genere o matura.
Ciò che mi resta è la fede. Sai, quella fede che è tutto per un uomo, della quale si vive e per la quale si può anche morire? Parlo di un uomo cui non basta la fede nell’uomo e nell’umanità, perché di questa “l’ uomo che è in me” non sa che farsene. E infatti, a che mi giova credere che sì, malgrado tutto, l’uomo ce la farà anche stavolta a trasformare in valori positivi le prove e le difficoltà del presente? Come è sempre stato. Dalla rovina dell’Impero romano che sembrò segnare la fine del mondo, sorsero le civiltà del medioevo e dell’evo moderno attraverso infinite peripezie non di rado tragiche.
Questo è certamente vero: ma se io rimango oggi schiacciato dal crollo della mia casa sotto il terremoto, che conforto volete che mi venga dal sentirmi gridare dai soccorritori: “Coraggio! te la rifaremo più bella”. Io ho solo una vita, e quando l’avrò perduta, sarà per sempre. Questo può consolare chi resta, non chi se ne va.
Ma se in me ho una fede incrollabile che mi consente di credere che ciò che mi è stato tolto in questa vita mi sarà restituito con gli interessi nell’altra, allora sarà più facile sopportarne la perdita. Così nell’esempio di sopra: ciò che non può consolare il morente, potrà però aiutare i sopravvissuti a tollerare con pazienza i disagi della ricostruzione. È consolazione da poco? A me basta.

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