Ahi serva Italia…non donna di provicia ma… (bordello?)


Non avrei voglia di scrivere. Di niente. C’è qualcosa che mi rende svogliato, avvilito, depresso. Gli è che ogni volta che m’affaccio alle mie poche finestre sul mondo (stampa, TV, un po’ meno la radio, meno ancora internet), sento subito un gran bisogno di richiuderle per l’aria ammorbata che mi invade i polmoni.
Sui giornali di oggi, venerdì 29 ottobre: il ministro Brunetta annuncia (o minaccia?): a casa trecentomila statali. E forse è giusto. Che ci stanno a fare quell’esercito di sottooccupati (nel senso che stanno lì a far poco o niente), pagati a stipendio pieno e messi lì solo per mantenere promesse elettorali, senza nessun beneficio per i cittadini, i quali, tra quella folla di poco-o-nulla-facenti, non trovano mai la persona giusta, e intanto le pratiche invecchiano sotto una pila di altre pratiche invecchiate?
“Bisogna risparmiare” è il nuovo Verbo: e dunque tagliare. La ricreazione è finita.
Come dargli torto? Ci avevano detto che la crisi era passata o che, almeno, il peggio era passato. Ci avevano detto che il Paese ne era uscito meglio degli altri, anche se non ci dicevano chi erano questi famosi “altri”. Invece la crisi c’è ancora, e colpisce duro, pesante, e lascia segni profondi sulla pelle degli italiani più deboli, più soli, più anziani, più poveri, più-tante-altre-cose-ancora.
Certo, 300.000 statali a casa sono un sacco di persone, ma sono anche una montagna di milioni di euro risparmiati ogni anno. Non è giusto e doveroso, in simili frangenti che lo Stato risparmi e che metta ordine nei suoi conti e che imbocchi strade un po’ più virtuose nella gestione della cosa pubblica? Sacrosanto.
Poi si potrà chiedere alle Regioni, alle Province, ai Comuni di fare altrettanto. E sarà un processo virtuoso e salutare. Per tutti. E il Parlamento: non si potrebbe tagliare qualcosa anche lì? Alla Camera? Al Senato?
Si risponde: qualcosa abbiamo tagliato anche noi, ognuno di noi, dai nostri compensi. Quanto? Più o meno le mance. Neanche i prezzi alla buvette hanno voluto ritoccare al rialzo.
È qui che non riesco più a seguire il ministro Brunetta e quelli come lui. Perché non c’è analogia fra le diverse misure. 300.000 esuberi nello Stato, va bene! E quanti se ne potrebbero prevedere nei due rami del Parlamento?
Più di mille parlamentari, con tutto quello che costano; e VITA NATURAL DURANTE, si noti bene! Sì perché gli onorevoli continueranno a pesare sullo Stato (su di noi!) finché “morte non sopraggiunga”. Una alleggeritina non farebbe male, davvero!
Torniamo a quei 300.000. Se voi li tagliate via, quelli perdono tutto! Per qualche mese avranno forse la disoccupazione, e poi? Quei pochi mesi passano presto, e le rate del mutuo scadono ogni mese, le bollette arrivano ogni due mesi e i figli mangiano tutti i giorni!
E questo non vale solo per gli statali, gli “intoccabili” di un tempo: questo vale per Termini Imerese, per Pomigliano d’Arco, per Biella, per Prato e non so più per quante altre fabbriche e per quante piccole e medie imprese del Nord del Centro e del Sud allo stesso modo.
Questo vale anche per i produttori di latte e per chi coltiva pomodori pesche arance e tutto. Perché alla fine non sapranno più a chi venderli, e forse neppure sanno più se valga ancora la pena di produrli e di venderli, perché il “guadagno” del produttore è tutto in perdita, mentre chi ci guadagna una fortuna sono i “mediatori” (quelli della filiera), perché è lì che il prezzo si gonfia, che il cannibalismo trionfa e si consuma.
Così per i pescatori e per innumerevoli altre categorie di lavoratori e di produttori, tutti inghiottiti e fagocitati dai poteri forti e fortissimi che li sovrastano.
Un mondo così non mi piaceva già una trentina d’anni fa, quando a una mia piccola raccolta di poesie per la preghiera e per la liturgia detti questo titolo “Signore, io mi sento straniero”. Se ieri ero solo uno straniero, oggi mi sento un marziano capitato non so come in questa gabbia di matti di nome Italia.
In questa gabbia di matti, a dispetto di ogni emergenza, non si smette mai di litigare come e peggio che mille comari di Windsor con i loro tumultuosi corteggi di spasimanti, burloni, fattucchieri ecc. ecc.
Non è questo il tristissimo spettacolo che l’Italia sta offrendo all’universo mondo con le beghe che oppongono l’un contro l’altro i suoi partiti, i suoi leaders, i suoi potenti (potenti? vien quasi da ridere!) i suoi profeti, i suoi saggi, i suoi unti del signore, i suoi ruffiani, i suoi maneggioni, le sue storie di letto e di boudoir, di corruzione e di veline smaniose; dove tutti sono pronti a vendere tutto, vóto o corpo non importa, «ed un Marcel diventa, ogni villan che parteggiando viene» (Purgatorio, VI, 126)?
Di vivere queste situazioni, anche solo di esserne disgustato spettatore, sono davvero stanco. Non entro nei dettagli e non faccio nomi. Non mi interessano. O meglio, non è che non mi interessino; ma appunto, essendone disgustato, preferisco non entrarci. E ancora una volta, col sommo Poeta mi dico: «non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (Inferno, III, 51).
Ma se posso non ragionar dei vari Marcelli già sul campo e di tutti gli aspiranti Marcelli che premono alle porte della tanto malridotta italica civitas alle chiavi della quale tutti aspirano, mi rimane più difficile, non ragionar di chi, nella Cittadella nella quale ho scelto di vivere, opera e agisce.
Parlo della Chiesa, della mia Chiesa, la Chiesa cattolica, dalla quale ho diritto di aspettarmi molto di più di quanto non possa offrirmi il resto del mondo e dalla quale non sempre mi arrivano risposte convincenti. Ma proprio in questi ultimi tre giorni un segno c’è stato, importante, che mi ha ridato ottimismo. E di questo segno voglio dire qualcosa.
È proprio di questi giorni un “no” che ho dovuto dire a chi mi chiedeva se poteva fare la Comunione eucaristica pur mantenendo una relazione notoria con una persona sposata. In ossequio al Codice di Diritto Canonico, ho dovuto rispondere di no. Non ha sollevato obiezioni, e a questa persona sono stato grato perché, pur dicendosi addolorata per la sanzione, ha promesso di attenersi alla severa norma canonica.
Quando devo dare una risposta come questa a qualcuno, uomo o donna che sia, il cuore mi si fa sempre piccolo piccolo. NO è una piccolissima parola, ma può far molto male al cuore. Sia di chi la pronuncia, sia di chi se la sente dire. Allora vorresti essere sicuro che il tuo NO sarà un NO sempre e per tutti. Poi ti accorgi che per alcuni il tuo NO può anche essere un NI e qualche volta può diventare semplicemente un SÌ. Come accadde solo qualche settimana fa, quando ai funerali di Raimondo Vianello, il premier Silvio Berlusconi si avvicinò alla mensa eucaristica e ricevette la Comunione davanti alle telecamere, in diretta. Appena l’altra sera (venerdì 29) Beppe Severgnini commentava la cosa così (le parole sono mie, il concetto è di entrambi): quello che si è visto in TV, farà certo passare l’idea che la Chiesa potrà sempre fare un’eccezione se può sperarne in cambio qualcosa. Anche mons. Rino Fisichella aveva fatto la sua parte, quando ha invitato a non esagerare l’infortunio della bestemmia in diretta. Furono in molti a patirne scandalo.
In questi ultimi tre giorni, finalmente s’è fatta l’unanimità fra i media cattolici (Osservatore Romano, Avvenire, Famiglia cristiana): sul caso della minorenne Ruby la condanna è stata unanime. La Chiesa deve mostrare misericordia, sempre, ai peccatori pentiti; molto meno a chi dice: «Io amo la vita e amo le donne. Ne sono orgoglioso e non cambierò mai». Per chi parla così, la Chiesa può solo pregare.