Ahi passione di Cristo e della Chiesa!


L’ho vissuta proprio così, dentro di me. E non solo dentro.
L’ho vissuta così la mia «domenica triste degli ulivi», come Milano visse la sua, quando vide «crosciar ad una ad una /… le trecento torri/ della cerchia, ed al fin per la ruina/ polverosa ci apparvero le case spezzate, smozzicate, sgretolate:/ parean file di scheletri in cimitero…» (La canzone di Legnano).
Che dico poi la mia?
E che può rappresentare mai la mia sofferenza, se appena la metto a confronto con la passione che crocifigge oggi l’intera cattolicità, inondata com’è dallo tzunami di lerciume e vergogna che le rovesciano addosso i suoi preti a centinaia, di giorno in giorno, con implacabile puntualità?
È proprio come se, a un tratto, le sue torri, quelle che fin qui sono stati i suoi punti di forza e di orgoglio – sempre del resto le torri hanno rappresentato un punto di forza e di orgoglio per una città fortificata: «Girate tutto intorno a Sion: contate le sue torri» (Sal 48,13) – venissero rase al suolo da un sisma di inaudita violenza; come se le torri di Gerico crollassero a terra, sgretolandosi al suono delle trombe di Giosuè; cose se la tromba del giudizio (tuba mirum spargens sonum), suonata dall’angelo (1Cor 15,52) sulla Valle di Giosafat (Gl 4,12), venissero a ridestare tutti gli scheletri nascosti negli armadi delle sacrestie o già sepolti da decenni sottoterra.
Letteratura? La verità è che quanto è venuto alla luce in queste ultime settimane, dà tanto l’impressione d’un giudizio di Dio, quasi la conferma della verità della parola ammonitrice di Gesù: «Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce» (Mt 10,27). Parole, queste, che non possono lasciarci indifferenti e non renderci pensosi delle severe regole che reggono le sorti degli umani.

Difficile, allora, non pensare alla morte di Gesù senza tenere gli occhi della mente e del cuore fissi sull’agonia della Chiesa, immagine e tipo dell’agonia di Cristo nell’orto, quando, «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà» (Ebr 5,7).
Fu quello il momento della tentazione suprema, il momento che il diavolo (diabolos, l’oppositore), il grande tentatore, aveva scelto per la rivincita su colui che già l’aveva sconfitto e scacciato una prima volta dopo il digiuno nel deserto, subito all’inizio della sua vita pubblica,
Ora quell’antico Tentatore (che aveva già perduto il primo Adamo) ci riprovava col secondo e gli si riproponeva sotto le seducenti spoglie del consigliere amico, di cui ti puoi fidare, su cui puoi far conto perché lui conosce tutte le menzogne di Dio («non è vero che morirete… anzi sarete com e Dio» (Gn 3,4-5); più ancora egli conosce tutti i sentieri e le arti del successo e della vittoria contro tutti i nemici. Proprio lui, il Nemico, gli può rendere amici tutti quelli che contano.

Quei momenti li sta oggi attraversando la Chiesa, che si vede tradita e (ahimè) non abbandonata dai suoi figli che, proprio perché rimasti nella sua casa con ancora indosso la sua livrea, le procurano un male e un danno difficilissimo da stimare.
È l’orrore di scoprire che le arti di cui si servivano i suoi apostoli per sedurre i bambini erano le stesse di quelle usate dall’antico serpente: ti insegnerò io la vita, il piacere e la gioia di vivere.
È l’amarezza di tutti quelli che amano la madre e la scoprono adultera o, peggio ancora, donna di bordello, indegna della fiducia, dell’amore, anzi della venerazione che i figli avevano sempre nutrito per lei.
È il timore di non poter neppure piangere sul suo cadavere, sulla sua tomba, perché una madre così non merita il tuo dolore e il tuo pianto, lei che tanto danno t’ha fatto e tanto grande tesoro (la fiducia e, con la fiducia, la fede) ti ha prima avvelenato e poi magari anche tolto.
Su questa tomba profanata mi è sembrato di sedere, come gli Ebrei deportati a Babilonia sulle rive del Tigri e dell’ Eufrate, le cetre appese ai rami di quei salici, che piangono le mie stesse lacrime «al ricordo di Sion» (Sal 136,1).

L’ho vissuta così, la mia Settimana Santa, guardando la mia Chiesa come si guarda il volto e il corpo di Gesù, bruttati dal sangue dell’Orto degli Ulivi, della flagellazione e della corona di spine, come il Cristo del Grünewald. Li ho portati con me, nei miei occhi, nel mio cuore quel volto e quel corpo insanguinati, fino al venerdì santo; di quel sangue mi so responsabile anch’io, come lo sono tutti i figli e le figlie di Eva e di Adamo, peccatori essi stessi, da cui tutti noi siamo nati.
Davanti a quelle piaghe, a quel sangue, come lady Macbeth ho cercato di lavarmi, sapendo che anch’io vi ho messo la mia parte coi miei peccati, anche se non sono quelli i miei peccati; ma quel sangue è tenace e stenta molto a sparire.
Eppure bisognerà ancora predicare, bisognerà ancora parlare in tuo nome, parlare agli altri dei loro peccati, mentre sulla nostra coscienza graverà tutto il peso dei nostri propri peccati.
Bisognerà chiedere ai nostri fratelli di farci ancora credito della buona fede e della fede buona: di quella che desidera solo il loro bene. Il loro vero bene.
Ci sentiremo comunque inadeguati.
Sarà una Pasqua difficile. Per tutti.

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