Nel ’68 io avevo ragione. Purtroppo


Quaranta anni fa usciva la Lettera a una professoressa, l’ultimo libro di don Lorenzo Milani, opera che solo per un mese riuscì a non essere postuma. Il successo planetario che le arrise impone ancora oggi di ricordarlo per quello che fu: una bombacarta sulla porta della scuola italiana. Una bomba carta può uccidere un uomo, non può certo distruggere un sistema.
È ciò che avvenne con la scuola di Barbiana: la deflagrazione di una bomba a mano, d’una bottiglia molotov: fanno rumore, possono far male a qualcuno, ma a pochi; in compenso possono dar fastidio a molti, ma se rimane un fatto isolato, lascia sempre le cose come stanno. Questi ordigni producono un effetto destabilizzante e dunque potenzialmente rivoluzionario sul piano politico, o riformatore su quello civile, ma le esplosioni devono succedersi a catena, in serie, ingenerando apprensione, tensione, paura; o almeno attenzione al problema, indignazione, sdegno e cori di proteste. Solo allora si potrà sperare che si inneschi un virtuoso circuito riformatore. Questo non accadde, almeno in Italia. A don Lorenzo Milani furono dedicate scuole, circoli culturali e vie nelle città d’Italia; i suoi libri diventarono punti di riferimento per migliaia, forse milioni di giovani in tutto il mondo, ma il caso del priore di Barbiana rimase isolato. Non trovò né imitatori né continuatori. Il sistema, nella sua essenza, non ne fu minimamente scosso.
A limitarci solo all’Italia bisogna anzi riconoscere che la scuola, da allora, è andata sempre più rotolando sulla china di un desolante degrado, contro cui alcune settimane fa reagivano indignati molti dei migliori notisti italiani sui vari quotidiani nazionali. Questo non vuol dire che il piccolo grande libro di don Lorenzo sia passato senza lasciare traccia, ma se qualcosa si è mosso, ciò è avvenuto soprattutto a livello delle coscienze, non delle istituzioni. È pur vero che Don Lorenzo non scriveva tanto per i figli di papà dei Parioli o delle ville sui colli di Fiesole. Egli aveva in mente i figli dei proletari di San Donato di Calenzano e più ancora i ‘figli di nessuno’ delle montagne del Mugello, dimenticati dalla storia e perfino da Dio. Per quei bambini che non sarebbero mai andati a scuola se non fosse stato relegato lassù, tra le capre e le mucche, quel giovane prete, ebreo per parte di madre e borghese fino al midollo di tutte le sue ossa per parte di padre, espressione predestinata della agiata e colta borghesia fiorentina.
Proprio quel borghese che capiva di arte e di lettere, di sociologia e di politica, – lo sguardo acuto, capace di anticipare i tempi, e il cuore pronto a pagare di persona le conseguenze delle sue coraggiose intuizioni – seppe fare della pena inflittagli – il confino, pensato per lui come una camicia di forza sul corpo d’un folle pericoloso – un formidabile punto di irradiazione d’un’ idea siderale e impossibile: il maestro, il vero maestro vive solo per i suoi allievi, si dedica a lui totalmente, non possiede altro, non pensa ad altro, non si occupa d’altro che di loro: mai vacanza, mai ricreazione, mai evasioni dall’impegno: ‘I care’ era scritto, ed è tutt’ora, su una porta dell’aula di quella scuola che era poi l’unica stanza disponibile, e dove tutto avveniva, e dove quei ragazzi passavano 12 ore al giorno, natale e pasqua compresi, perché anche a natale e pasqua “la scuola è meglio della merda”. La brutalità di questa espressione costituì un problema per lo stesso don Lorenzo – che, da buon fiorentino, sapeva concedersi più d’una licenza nel linguaggio. Ne lasciò la decisione – se metterla o non metterla – all’amico, prete come lui e poeta, Davide Maria Turoldo. Che decise per il “si stampi”.
Questa grande figura di prete e di profeta, insopportabilmente clericale nella sua teologia sacramentarla e dogmatica e incomparabilmente libera e precorritrice di istanze sociali e civili autentiche, mi occupava la mente pretendendo attenzione. Mi convincevo che il grande limite di don Lorenzo è stato quello di non rendersi conto che la sua intuizione non poteva valere che per Barbiana, che non avrebbe trovato in nessun altro posto del cosiddetto mondo civile nessun altro individuo, né prete né laico, disposto a spendersi così totalmente come faceva lui per la sua scuola. Dove avrebbe potuto trovare le maestre nubili e i maestri celibi che lui auspicava, se non fra i missionari e le missionarie del Mato Grosso o delle foreste e delle savane dell’Africa? Non sono molti i laici che fanno di Albert Schweitzer il loro modello, tempo pieno o part time che sia. Ma se in quei luoghi questo può essere ancora possibile, è solo perché i bambini lì non saprebbero che altro fare e la scuola della missione o del movimento filantropico val bene la noia e l’inedia della capanna.
Ma in Italia, in Europa, in America! Vi fate un’idea dei nostri bambini che non trovano più un’ora la settimana per il catechismo perché hanno ogni giorno una cosa diversa da fare: scuola, lingue, nuoto, danza, musica, canto? Sempre a scuola? Mica scemi!
Ripensavo a tutto questo riguardando quel magnifico film di Marco Tullio Giordana ‘La meglio gioventù’ e ho avuto nostalgia di quei tempi. Gli «angeli del fango» della Firenze del ’66 sotto l’acqua e il fango dell’Arno, i moti universitari, le occupazioni delle facoltà e dei licei, e ho sentito uno struggente rimpianto per non averne mai fatto parte. Forse a Firenze sarei anche potuto andare, ma non mi venne mai neppure in mente. Il mio esodo dal periodo di formazione ’romana’ verso la nuova stagione conciliare era appena agli inizi. Allora il ’68, con tutto quello che seguì, mi trovò sospettoso, apertamente critico. Ero convinto che su quella strada non si sarebbe andati da nessuna parte. Che la scuola sarebbe rimasta quella che era; che la sera di Sant’ Ambrogio i ricchi, una volta trascorsa la stagione delle uova marce e dei pomodori sulle pellicce, avrebbero ripreso il loro posto alla Scala, posto che, nel frattempo, nessun povero avrebbe occupato. Ero sicuro che della grande ansia di libertà e di ‘fantasia al potere’ sarebbero rimasti solo la smania di libertà sessuale e i cosiddetti ‘diritti civili’ (divorzio e aborto liberi, cui poi altri, dello stesso genere, si sarebbero aggiunti); quanto alla domanda di giustizia sociale sarebbe rimasta solo la richiesta di poter vivere tutti una ‘vita esagerata’ come se il pianeta si potesse permettere, di qui a qualche decennio, di offrire quel tipo di vita a 9-10 miliardi di individui, tutti smaniosi di esagerare e di consumare sempre di più.
È ciò che sta accadendo o delineandosi ai nostri giorni: basta guardare la nuova ‘meglio gioventù’ imperante in tv: veline seminude sculettanti sullo schermo a ogni ora del giorno e della sera. Oh sì, avevo ragione io, allora, quando ai miei ragazzi sembravo un pessimista e già semifreddo. Ma non mi dà nessuna gioia saperlo.